sabato 25 ottobre 2008

I tre vincitori

Dopo avervi fatto leggere tutti i racconti, ecco i tre racconti vincitori:

  1. Michele Pinto con Qualche pagina indietro

  2. Silvia Seracini con Il libro della vita

  3. Alessio Giovannini con Il bianco delle mutande stirate



I premi per il secondo e terzo posto sono stati dei buoni per l'acquisto di libri con le librerie convenzionate con Libriamo, la fiera dell'editoria delle Marche.

Il vincitore ha vinto invece il corso di scrittura creativa, parole in rete, offerto da e alla enne.

Per finire un bell'applauso a tutti i partecipanti!

Davide

Racconto di Valentina Pallotti

C’era un piacevole profumo di lavanda nell’aria. Nuotavo tra uno scaffale e l’altro, prendevo fiato, mi immergevo fino a raggiungere quelli più bassi e poi riemergevo, tiravo il naso all’insù per riprendere aria prima di una nuova immersione.
Aveva l’aria di un posto inesplorato, sotto quel sottile strato di polvere dei bellissimi scaffali di mogano, con il lodevole compito di tenere il peso della cultura. Ai miei occhi quello era uno dei posti più affascinanti in cui fossi mai stata, milioni di libri si arrampicavano su tutte le pareti, credo ce ne fossero anche sul soffitto, persino sul pavimento.
In quel momento mi guardavo attorno e l’unica cosa che volevo era essere un granello di polvere, infilarmi in silenzio tra quelle pagine, diventare parte di esse, e poi scivolare fino in fondo, lasciarle e sceglierne altre, con altri personaggi, altre avventure, altre emozioni.
Mentre gli occhi si riempivano di quella vista, sentivo il corpo in fibrillazione, le cellule impazzire, le papille gustative agitarsi, lasciavo che i polpastrelli accarezzassero le innumerevoli copertine, saltassero da un titolo all’altro, da un autore all’altro.
Finalmente quel posto era mio, dopo tanti sacrifici ero riuscita a mettere da parte la somma necessaria per comprare quella vecchia libreria; l’avrei messa a posto e sarebbe diventato un posto incantato, dove le persone si potevano innamorare, dei libri ovviamente.
Intanto fuori da quella porta la Vita scorreva tranquilla, incurante delle mie emozioni mentre uno ad uno prendevo i libri, li spolveravo e li accatastavo in un angolo in attesa di riportarli a nuovo splendore. Era dappertutto, nel traffico straziante che per tutto il giorno solcava la strada di fronte, nelle voci dei passanti, nelle suole delle scarpe che scricchiolavano mentre calpestavano l’asfalto, nelle ugole dei bambini piangenti perché le mamme non avevano comprato loro le caramelle da Miele&Felicità, negozio con cui la mia libreria divideva una parete…dappertutto appunto, ed un giorno entrò persino nel mio negozietto.
Ero così emozionata! Era la prima volta che ricevevo un cliente, e non sapevo come ci si dovesse comportare, se i capelli andavano bene arruffati o se era meglio pettinarli, se dovevo aiutarlo o lasciarlo libero di vagare per il mio universo. Optai per la prima opzione: me ne restai sulla mia poltroncina color cachè, aspettando ansiosa che fosse venuto da me a chiedere informazioni. Dopo aver fatto varie piroette tra i miei scaffali, si avvicinò, si mise seduto e cominciò a fissarmi…inutile raccontare il mio imbarazzo, cercavo di nascondermi tra le pagine del libro che stavo leggendo, facendo finta di non vedere che lui era a tredici centimetri dal mio naso, guardavo fuori dalla finestra, avvolgevo ripetutamente una ciocca di capelli intorno all’indice destro, ma lui niente, non si mosse. Ad un tratto si muove, estrae dalla tasca un pacchetto in carta zucchero; lo posa davanti a lui e si alza, va verso la porta e prima di richiuderla dietro di se mi sussurra >prendi: questo libro ti cambierà la vita<
Rimasi spiazzata, non sapevo come comportarmi, ma era evidente che l’unica cosa sensata da fare era aprire il pacchetto; così lo raccolsi e me lo avvicinai al grembo. Tolsi la carta zucchero e scoprii un taccuino dalla copertina color nuvola. Cominciai a leggere. Dalle prime parole mi ritrovai catapultata dentro la storia, come se l’ avessi già letta; sapevo quale parola avrei incontrato dopo quella che stavo leggendo, conoscevo le posizioni delle virgole, avevo già vissuto quelle sensazioni. Pian piano mi resi conto che quella storia era la storia della mia vita, che la protagonista che danzava tra le pagine ero io; insomma, quel libro parlava inspiegabilmente di me!
Andai avanti a leggere, e ad un certo punto mi fermo e mi ritrovo annoiata, stufa di girare la pagina perché già immaginavo quello che ci sarebbe stato scritto, in quanto tutte parlavano della stessa cosa, di una passione folle per la lettura, di una vita basata totalmente su questa. In quel preciso istante mi resi conto di quanto poco avessi vissuto realmente. Tutti i libri che avevo letto parlavano di avventure, di sentimenti, di passioni, di amori, di desideri; non erano noiosi, bensì avvincenti, inaspettati, cosa che non era stata la mia vita. Mi mancava tutto d’un tratto l’amore, l’amicizia, ma anche l’odio, il rancore…non avevo mai provato queste emozioni se non di riflesso nei personaggi dei libri che amavo, e per questo mi ritrovai ad essere profondamente triste.
Riaprii il libro e andai direttamente a vedere come finiva, ma mi accorsi che non c’era una conclusione a quella storia, che avevo ancora una possibilità di riscatto, che potevo cambiare. Capii che era ora di vivere quelle avventure che tenevo imprigionate nei miei sogni, di gettarmi nel flusso incessante della vita, in modo da dare al mio libro una conclusione degna, degna di essere la “mia” conclusione.

Racconto di Simona Sassaroli

Alla fine era accaduto. Bocciata. Cioè, in realtà non c'era scritto proprio bocciata. Il suo nome non figurava tra i promossi. Aveva scorso bene la lista, prima tutti i nominativi con la sua iniziale, poi anche gli altri, si sa mai, magari qualcuno di quei luminari del diritto che in cinque minuti scarsi avevano corretto i suoi compiti potevano anche essersi sbagliati. Stette per un po' completamente immobile davanti a quella bacheca dove dei fogli recanti il titolo “esame avvocato 2007- elenco ammessi all'orale” troneggiava spietatamente, lo sguardo perso nel vuoto, la testa bassa e il respiro affannoso. Davanti a sé colleghi praticanti esultanti si muovevano lentamente, quasi come in una di quelle scene al rallenty che si vedono nei film. Che poi lei lo odiava il rallenty, e ecco, se avesse potuto farlo in quel momento avrebbe schiacciato il tasto riavvolgimento automatico e avrebbe spento tutto. Ci pensò lo squillare del telefonino a risvegliarla. “No... non è andata...”. Al che spense il telefonino, lo mise nella valigetta in similpelle regalo di laurea, seppellito proprio sotto a due fascicoli d'ufficio che aveva ritirato quella mattina in cancelleria, e decise di comportarsi esattamente come se non fosse successo niente.
Uscì con passo spedito dal tribunale, salutò una delle guardie giurate che ormai dopo due anni avevano imparato a riconoscerla, e all'incrocio tra Via Garibaldi e Corso Matteotti, sotto un cielo nuvoloso che voleva presagire solo pioggia, inforcò gli occhiali da sole e iniziò a vagare senza una meta precisa, tirando ogni tanto su col naso.
In testa un unico pensiero “in fondo è solo uno stramaledettissimo esame”. Se lo ripeteva ad intervalli regolari di trenta secondi. Era arrabbiata di quella rabbia a cui in quel momento non riusciva a trovare un rimedio. Alla fine il rimedio le si piazzò inaspettatamente proprio lì davanti al muso, in una vecchia libreria del centro. Non quei posti comunemente chiamati librerie giuridiche dove l'unica scelta plausibile è tra un codice annotato con le ultimissime massime in materia civile o un manuale breve di penale in offerta speciale, ma proprio una di quelle librerie dove entri e puoi anche passarci un pomeriggio intero, se solo si avesse del tempo.
E arrivata a quel punto decise di regalarsi del tempo e in subordine pure un libro. Qualcosa da leggersi con calma, qualcosa da ricordare per il semplice gusto di tenerlo in mente.
Vagò per un po' tra gli scaffali dedicati ai classici in edizione scontata del trenta per cento e le ultime novità, lesse veloce qualche trama, ma non ci fu niente che riuscì a cogliere la sua attenzione.
Pensò che forse avrebbe avuto bisogno di un consiglio, anche di un minuscolo suggerimento, di qualcuno che riuscisse a mettersi nella sua testa e a comprenderla fino in fondo in quel momento, di una voce che le si presentasse lì vicino, e le desse una pacca sulle spalla accompagnata da un: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.” Rimase ancora una mezz'oretta in quella libreria dove confusa tra premi strega e ricci molto eleganti alla fine non si comprò proprio niente. “Nahhh...” si disse “ma può un libro cambiarti la vita?... Sarebbe troppo facile, magari ti possono aiutare, ma cambiarla addirittura, no... non credo. ” Fece spallucce, accennò un saluto ad una delle commesse e si avviò all'uscita.
Una volta fuori, si sentiva già meglio, un banale giro in una libreria in quel giovedì pomeriggio di inizio estate le aveva fatto quasi bene. Si tolse gli occhiali da sole, fece un respiro profondo, ne fece un altro, e riprese a camminare, arrancando un po' e con pensieri ancora confusamente indecisi. Però riprese a camminare. Era un inizio.

Il libro della vita

Racconto di Silvia Seracini

A mio nonno Floriano

“Ben arrivato, Floriano. Posso aiutarti?”, sollevando uno sguardo placido dalle pagine dell’enorme catalogo sul quale ricadeva la sua lunga barba.
L’altro, dalla testa un tempo di un biondo-tendente al rossiccio stretta fra le mani, aveva appena voltato lo sguardo verso di Lui, lasciando scivolare i gomiti sul lucido bancone.
“E a te chi te conosce?”. Gli aveva puntato contro due occhi lacrimosi e spaesati.
“Ma sono io che ti conosco. Allora dimmi, cosa posso offrirti?” e, scostando la barba, aveva preso a far scorrere l’indice nodoso fra le righe di quell’immenso volume.
“E che me voi offrì: è da una settimana che in ospedale nun me fanno magna’.”
“Mi dispiace molto, Floriano. Purtroppo sul tuo libro c’era scritto proprio questo. E in effetti io non parlavo di cibo, ma di libri: non di solo pane…”
“Ma de che libro stai a parla’? Io mica leggo mai. Al massimo il quotidiano de Ancona, il bugiardo’.”
“Intendevo il libro della tua vita.”
“?”
“E, se mi permetti di aggiungere, ora che il prestito di quel libro è scaduto, puoi prenderne in prestito un altro. Scegli pure quello che preferisci.”
“Ma che stai a di’?”
“Parlo della tua vita. Quella nuova, intendo”.
“Io a questo qui nun lo capisco.”, serrando di nuovo la testa fra le mani.
“Ti vedo indeciso. Se mi posso permettere… prendi: questo libro ti cambierà la vita.”. Così dicendo, aveva arrestato il dito in corrispondenza di un codice sul catalogo. “Che ne dici di una vita tutta diversa da quella che hai già vissuto?”




“Ma io non la vojo cambià. A me mi piace la mia, con mi moje, e i nipoti. E ci ho pure i pronipoti, el sai?”
“Certo che lo so: ne hai tre. E ti dirò di più, un quarto è in arrivo. Io so tutto”. Così dicendo, aveva accennato un compassionevole sorriso.
“Ma quando posso torna’ a casa? Gina sarà in pensiero.”
“Mi dispiace: tu non potrai tornare a casa. Per lo meno non a quella di prima.”
“Ma che voi di’?”. Si era cominciato ad agitare, guardandosi a destra e a sinistra alla ricerca di una via di fuga.
“Ma ‘ndo’ me trovo? Chi sei te? Come faccio a torna’ a casa?”
“Mi dispiace. Floriano: devi prendere un altro libro.”
“Ma che libro e libro”, cominciando davvero a dare in escandescenze, “io vojo tornà a casa. Mi’ moje Gina me aspetta per pranzo.”
A quel punto il vecchio aveva per un attimo affondato gli occhi nel folto della sua barba candida, riemergendone con un sorriso pieno di grazia:
“Floriano, tu hai avuto un arresto cardiaco una settimana fa, alla tenera età di novantatre anni. Ti trovavi su un autobus e sei caduto spaccandoti l’osso del collo. Il tuo cuore ha smesso di battere per diciotto minuti, poi i medici ti hanno sorprendentemente (per loro, non certo per me!) rianimato. Ti hanno portato in ospedale ma le tue condizioni erano troppo gravi perché tu potessi farcela. Sei morto dopo una settimana, cioè oggi.”
“Nun ce posso crede.” Si era nascosto gli occhi dietro una mano.
“Dovresti. E sarebbe anche il caso che tu scegliessi un nuovo libro. Ti piacerebbe diventare un pescatore di pescecani?”
“Ma se non so’ nuota’! Io so’ nato in montagna.”
Il vecchio barbuto aveva cominciato a spazientirsi:
“Ma che montagna e montagna: quella è acqua passata! Puoi scegliere un libro nuovo di zecca! Non ci sono limiti alla tua scelta! Puoi cominciare una vita tutta nuova. Dai, su: osa.”
“Il bugiardo’ de oggi ce l’hai?”
“Niente più passato né presente: solo futuro.”
“Ma che futuro ce posso ave’ senza mi’ moje? È da sessantacinque anni che stamo insieme…”
“Floriano, su, fai il bravo: queste sono le regole.”
“E mi’ moje?”
“Anche lei fra un po’ dovrà restituire il suo libro… se non sbaglio – si fa per dire: io non sbaglio mai! – lo ha preso in prestito ben novantacinque anni fa.”
“Ma come faccio a ritrovalla?”
“Scegli un libro: magari ci sarà dentro anche lei”. Era stato costretto a barare. Non era il suo solito, anzi deplorava qualsiasi tipo di menzogna, ma quell’ometto sembrava proprio insistente.
“Vabbè, allora dimmi in quale libro ce trovo pure Gina.”
Il vecchio aveva represso un sbuffo di insofferenza – “il solito lettore coi paraocchi”, aveva pensato – e con un sorriso paziente aveva tagliato corto:
“Quello che ti pare. In tutti troverai Gina, se proprio ci tieni così tanto.”
Solo allora Floriano si era deciso a dare un’occhiata al grosso catalogo posto fra lui e il vecchio. Senza pensarci più di tanto, aveva appoggiato un indice (quell’indice che aveva finito per diventare gonfio e segnato dai graffi della brutta caduta sul bus) in corrispondenza di una riga.
Lo sguardo del vecchio canuto si era finalmente illuminato:
“Molto bene”, aveva mormorato fra sé controllando il codice DSBN. Poi aveva richiuso il volume con un tonfo, sollevando una nuvola di polvere stranamente profumata.
“Allora? Nun me dici che libro ho pescato?”
A quel punto il viso del vecchio aveva assunto un che di birichino:
“Come mai adesso tutta questa curiosità?”.

Sogni di pane

Racconto di Santacchi Serena

Tic, tic, tic, il suono delle gocce che s’infrangevano nella vasca riportò Linda alla realtà.
Ora, dentro la sua testa rimaneva il deserto, lasciato dagli eventi abbattutisi su di lei come un uragano.
Continuava a rimbombare solo una voce nella sua testa, quella del vecchio Morfeo che le ripeteva:<>
Erano trascorsi sette giorni da quando, come tutte le notti, si era fermata come sempre a salutare il suo amico Morfeo alla panetteria.
Erano trascorse sette notti da quando aveva trovato Morfeo in fin di vita trafitto da una spada.
Morfeo il suo confidente di una vita, l’unico che capiva come mai lei lavorasse la notte e rientrasse la mattina presto; Morfeo, a cui non aveva mai dovuto dare spiegazioni, sapeva leggere nel suo sguardo, sapeva scorrere nelle sue vene per arrivare al cuore e leggere quanto la vita ci aveva inciso su con il più potente dei bulini.
L’immagine del corpo consumato da una vita fatta di lavoro e fatica riverso a terra era il ritornello che accompagnava i suoi occhi.
Morfeo era il pane, la crosta dura fuori, la mollica tenera dentro; i capelli canuti come farina, occhi come acqua di un torrente di montagna.
Quando si avvicinò al corpo quasi esanime sentì un potente profumo di lievito, non capiva da dove provenisse, dopo che Morfeo esalò l’ultimo respiro il profumo di lievito svanì, come svanirono intorno a lei i muri, gli attrezzi del mestiere di Morfeo, tutto si dileguò come se non ci fosse mai stato; dove era la piccola bottega che per tanto tempo le aveva offerto rifugio nei momenti peggiori della sua via?
Al posto dell’antico forno a legna rimase solo uno strano leggio che lei non ricordava di aver mai visto. Quello strano oggetto le penetrò nella mente come una lama tagliente, era come una voce assordante che con la forza scaccia ogni altro pensiero dalle orecchie di chi ascolta.
Si insinuò nello stomaco di Linda, agguantò la sua anima per trascinarla verso di sé.
Lasciò Morfeo a terra e come l’altra metà di una calamita andò verso il vecchio leggio.
Si guardò intorno e i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, videro che intorno non c’era più la città ma il Bosco.
Lo aveva riconosciuto subito, era Bosco, il compagno di giochi dell’infanzia, il consolatore dei momenti foschi dell’adolescenza.
Il primo amico che l’aveva abbandonata nella sua vita, il dolore più grande, il senso di vuoto incolmabile, ora era di nuovo intorno a lei e con lui il leggio.
Si avvicinò con passi incerti, non sapeva cosa ci fosse sotto il manto rosso di foglie autunnali.
Sopra il leggio il libro di Morfeo.
Piccolo, rugoso, consunto, con incisa nella copertina una frase che la riportò all’infanzia: <>.
La testa le cominciò a girare e con lei le sembrava che cominciasse a girare tutto, sentiva il suo corpo piroettare con le foglie che le danzavano accanto in armoniosi mulinelli; socchiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì di nuovo era accasciata sul marciapiede con il piccolo libro accanto.
Era sparito Bosco, era sparito Morfeo, la panetteria, ora c’erano solo lei e il libro.
Tornò a casa, era giorno ormai e il sole era alto, erano anni che i suoi raggi non lambivano più la sua pelle, un brivido le corse lungo la schiena, il terrore l’attanagliò, il suo passo si fece sempre più veloce, divenne una corsa forsennata come se fosse inseguita dalle fiere della sua infanzia. Raggiunse la porta, il fiato tornò ad avere un ritmo regolare, aprì l’uscio e non c’era più il suo appartamento ma Bosco e Quercia che con il fruscio dei rami le disse:
<>
<Lo ha invecchiato, distruggendo giorno dopo giorno, la voglia di sognare dei bambini.
Lo ha ucciso sostituendosi nei cuori, con la voglia di potere degli uomini, con le aspettative annientate delle donne.
Il libro, che Morfeo ti ha lasciato, sta diventando ogni giorno più piccolo e sottile perché il genere umano non riesce più ad uscire dalla gabbia in cui Realtà lo ha imprigionato.
Ora tocca a te Linda prendere per mano i bambini e farli sognare, tocca a te distruggere le sbarre d’oro che uomini e donne credono essere ciò che hanno sempre voluto.
Tocca a te Linda ricordargli perché ascoltando il canto degli uccelli sognavano di volare, devi essere te ad insegnare ai bambini che si può vivere di sogni.
Pensaci…tra sette giorni e sette notti deciderai se salvare il mondo come Morfeo a fatto con te o lasciare che tanti bambini crescano nell’aridità dell’anima.>>
Cominciò a piroettare come una ballerina di carillon, con lei le foglie del bosco, chiuse gli occhi e quando li riaprì era a casa sua, ogni cosa era di nuovo a posto come l’aveva lasciata lei la notte precedente.
Erano trascorsi sette giorni e sette notti, non sapeva se ci sarebbe riuscita ma avrebbe cominciato provando a salvare i sogni della piccola Tonia.

Legàmi marini

Racconto di Paolo Tramannoni

Un denso odore di catrame. Le auto mi sfrecciano rapide davanti, sollevando una malmostosa nebbiolina di fango umido. Sono appena uscito dal blocco roccioso del carcere. La mia visita è finita – per fortuna presto, come sempre. Speravo che ad attendermi ci fosse il tiepido sole di questo autunno clemente. Ma c’era invece il grigiore di una Pesaro dimessa, da fine settimana, con le sue auto che sfrecciano rapide e indifferenti fra i tigli di queste vie anonime. La visita si è conclusa senza saluti, senza melanconie, senza colpi di scena.
Lontano come sempre.
Padre.

Non attraverso le mura della città, perché non sopporterei il richiamo grazioso dei vicoli che si precipitano verso il centro. La cameriera del caffè ormai mi conosce, e mi cura con calore formale e protettivo. Chiuso in un silenzio intatto, lascio ancora un po’ nelle nari lo sfrigolio dell’odore di formaldeide della sala colloqui. Lascio che l’ombra dell’immagine rugosa e dura di mio padre ricompaia nella retina, un istante prima che si dilegui. Ma poi basta. Non ricordo nemmeno le due o tre parole che mi ha detto, distrattamente e per dovere. Anch’io, per oggi, ho già fatto il mio dovere di figlio. Posso finalmente accorgermi che la cameriera è carina. Non vistosa: semplice, non inavvicinabile. La raggiungo al bancone. Posso chiudere l’episodio con una stilla di dolcezza. Sei umana, mia estemporanea compagna. Di cose petrose, per oggi, ne ho avute abbastanza.

Compro il biglietto accanto alla stazione. Una giovane coppia, davanti a me, non finisce più di prenotare la vacanza, tra i consigli informati e premurosi di una signora di mezza età dagli occhi arrossati dall’allergia. Non pretendo di passare avanti. A me serve solo un passaggio per Ancona, ma non c’è fretta. Per una volta non mi irrita aspettare. Quest’attesa tra luci e parole mi risparmia una più lunga attesa tra i binari e l’odore d’olio di quella giornata bigia e appiccicosa. In fondo alla stanza, quello che può essere il figlio della signora continua a strillare al cane che, dispettoso e divertito, non vuol saperne di smetterla di latrare. Sono a casa.

Fuori, sulla panchina del binario tre, mi fa compagnia il battito dei miei piedi. Ritmico, musicale, a volte rabbioso.

A bordo, lo spazio aperto del vagone mi fa assistere in tutta la sua gloria all’ingresso trionfale di Dino, il poeta matto che vende in giro i suoi libri tirati a mano in qualche tipografia dimenticata. Con tigna, e una fiducia immensa nel proprio talento. Non ho mai voluto pendere un suo libro. Eppure, non mi è mai stato riservato, per qualche misteriosa questione di empatia, il brusco trattamento che ricevono a volte altri clienti (potenziali od effettivi). Non lo snobbate. Non trattatelo con sufficienza. Se vedete che i poderosi mustacchi neri di quel gigante pallido si mettono a vibrare, è un guaio. Ricordo di un ragazzo molto ben vestito, che non gli dava retta, preso per la collottola. Gli comprò tre raccolte, una per sé ed altre da regalare. O di un altro, dalla cui silloge appena acquistata Dino strappò serafico alcune pagine, che il tipo in questione “non avrebbe potuto capire”.
Passandomi accanto, stavolta si limita a scorciarmi con la coda dell’occhio e a passare oltre. Troppo nero, deve avermi visto, per aver voglia di perder tempo con me. Eppure ci ripensa, e mi accorgo di averlo davanti quando ormai mi sta fissando dall’alto.
“Ciao,” biascico.
“Tu hai bisogno di un po’ di poesia,” dice, i baffi piegati in un sorriso un po’ amico e un po’ cattivo.
“Forse,” dico. “O forse ho solo bisogno di una nuova vita.”
Mi porge la sua raccolta. “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.”
Guardo la bella copertina con l’inserto di carta-paglia stampata al torchio. Quando alzo gli occhi per dirgli qualcosa (“lo compro”? “non lo voglio”?) il colosso si è già dileguato. Alle mie spalle, la porta dello scompartimento si sta già chiudendo con il suo morbido sospiro metallico.

Mi guardo le ginocchia: il libro è aperto su una poesia molto breve:

Le vie del porto non sanno mai d’anice
tanto come quando
le ragazze hanno rifatto il bianco.
C’è azzurro alle finestre
e di sera s’infiamma al molo un’invetriata.

Sono qui. Ho percorso mille passi, ho aggirato le gru del porto, ho evitato il ciacolare dei piccoli bar che sanno d’anice, e sono arrivato al grigio condominio in batteria sotto la rupe del duomo. Una nave spezza l’umido rumore di fondo del porto con il suo possente richiamo da fine dei tempi. Un attimo prima che mi decida, dopo un lungo esitare sotto quei balconi anonimi senza fiori e senza grazia, a suonare il citofono.

“Sì,” mi risponde una voce di donna, consunta.
“Non ho appuntamento. Ho visto il suo annuncio nel giornale. Posso salire?”
Mi risponde il brusco scatto elettrico del vecchio portone di alluminio. Entro, salgo. Le scale sanno di formaldeide.

“Paola.”
Mia sorella mi guarda dall’uscio, senza ancora aprire. Sorpresa.
“Ho visto papà.”
Mi fa entrare. Dobbiamo dirci molte cose.

Racconto di Monia Orazi

La luce rossastra che filtrava da dietro la persiana, la svegliò. Erano da poco passate le sette, e sul pavimento della camera, vedeva sottilissime linee d'ombra.

Lia era distesa, si scosse un po' dal torpore pomeridiano e si stropicciò gli occhi. Si tirò su piano piano, si mise a sedere sul letto. Allungò le braccia verso l'alto, tirò indietro il collo, lo stirò come una gatta, si passò le mani tra i lunghi capelli, sistemandoli dietro le spalle.

Era ora di andare. Davide l'aspettava per cena, ed una leggera ansia l'assalì prima di prepararsi. Raggiungere Trastevere in tram, dover affrontare una lunga tavolata di volti sconosciuti.....”Chissà come andrà?”, disse a voce alta.

Alla Trattoria “Da Gino” era già stata tante volte. Tovaglie con grandi scacchi bianchi e blu, bicchieri di vetro liscio, pieni di vino rosso, nell'aria un leggero aroma di soffritto che ti penetrava sottile nelle narici, lì si sentiva a casa. Solo che stasera il suo Davide, le presentava per la prima volta gli amici e lei si sentiva come alla vigilia di un esame importante. “Cosa mi metto?”, si chiese. Rovistò nell'armadio. Venne subito fuori quel paio di jeans neri che le stavano così bene. Ci abbinò una camicia bianca, tirò fuori il giubbetto di pelle nera. Le scarpe con il tacco quelle no, meglio le ballerine di vernice per affrontare l'acciottolato di sampietrini. Erano ormai le sette e venti. Si passò il gloss sulle labbra, una spazzolata ai lunghi capelli, un filo di ombretto castagna per far risaltare gli occhi nocciola. Si sorrise, guardandosi allo specchio.

Lentissimamente si avviò alla fermata, aspettava il 77. Guardò la vecchia signora seduta, infagottata in un cappotto color cammello, il foulard fantasia verde petrolio, un sacchetto scuro nella mano destra, l'aria rassegnata. “Non voglio diventare così – si disse – ma cosa vado pensando, manca ancora un sacco di tempo, ho solo 28 anni”.

Si immaginò le scene della cena, e bottiglie che passavano di mano in mano, i brindisi, le risate, gli schiamazzi, gli scherzi, la bella allegria di una comitiva di ragazzi. “Ce la farò - concluse – andrà bene, piacerò ai suoi amici”. Teneva molto a Davide, e voleva fare una buona impressione.

Lo sferragliare del tram interruppe i suoi pensieri. Si mise in fondo e chiuse gli occhi, aveva venti minuti per rilassarsi. Si vide fare una passeggiata, nel suo giubbotto nero, con l'ombra lunga sul selciato della strada, camminare per le strette vie. Trastevere era uno di quei luoghi del cuore in cui andava sempre volentieri, la parte di Roma che preferiva, un paese, dentro la città.

Le piaceva molto il vecchio palazzo dei conti Accoramboni, disabitato da decenni. Si fermava sotto il grande portone in legno, a guardare i fregi sopra le finestre. Piccoli putti, con le faccine smorfiose, si intrecciavano al fogliame e agli uccelli. Dietro gli scuri chiusi, immaginava lunghe sale polverose, con le pareti coperte di arazzi, lampadari di cristallo, grandi specchi dalla cornice dorata. Un mondo magnifico, ormai in rovina.

A due passi dal palazzo, girato l'angolo, c'era la libreria di sor Erminio. Tutto era rimasto come 40 anni fa. Grandi scaffali di legno chiaro, pieni zeppi di libri. In fondo il grande bancone in rovere. Potevi trovarci di tutto. Prime edizioni in folio, polverosi libri in pelle, titoli sconosciuti, volumetti ingialliti. Un bazar della lettura, nel cuore di Roma.

Entrava volentieri e passava ore spensierate. Erminio ne aveva vista tanta di gente, e aveva sempre aneddoti da raccontare. Si ricordò della prima volta che lo aveva conosciuto, dieci anni fa, in un afoso pomeriggio d'estate. Aveva il gelato in mano, e cercava un po' d'ombra. Svoltato l'angolo di via Giacinti, aveva visto l'antico palazzo dei conti. Qualche metro più in là la libreria.

Erminio aveva l'aria burbera, i capelli brizzolati, la fronte alta. Quello che l'aveva subito colpita erano i grandi occhi scuri, che ti si stampavano in faccia appena ne incontravi lo sguardo, magnetici. “Posso esserle utile signorì?”, le chiese. “Cerco un libro da leggere al mare”, rispose visto che il giorno dopo sarebbe partita per le vacanze. “Prendi: questo libro ti cambierà la vita”. Guardò il titolo e rise forte. “Alice nel paese delle Meraviglie”, di Lewis Carroll. “Cosa me ne faccio? Ho 18 anni, non mi servono le favole”. “Nun te sbaglià signorì – rispose sor Erminio col suo vocione – anche se cresci nun perde mai l'immaginazione che cianno i monelli. Sarà la tua ricchezza più granne”.

Acquistò il libro e lo portò con sé. Iniziò così la sua avventura. Le bastava chiudere gli occhi, per poter creare tutti i mondi che voleva, riempiendo pagine bianche con le sue avventure.

Lia Frassoldati, a 28 anni aveva già pubblicato sei libri ed era una delle finaliste, al premio Strega di quell'anno. All'improvviso sentì uno scossone, lo stridore di freni, sbattè la testa contro il vetro, aprì gli occhi, guardò fuori. C'era Davide ad aspettarla. Sorrise e pensò alla bella serata che l'aspettava.