sabato 25 ottobre 2008

I tre vincitori

Dopo avervi fatto leggere tutti i racconti, ecco i tre racconti vincitori:

  1. Michele Pinto con Qualche pagina indietro

  2. Silvia Seracini con Il libro della vita

  3. Alessio Giovannini con Il bianco delle mutande stirate



I premi per il secondo e terzo posto sono stati dei buoni per l'acquisto di libri con le librerie convenzionate con Libriamo, la fiera dell'editoria delle Marche.

Il vincitore ha vinto invece il corso di scrittura creativa, parole in rete, offerto da e alla enne.

Per finire un bell'applauso a tutti i partecipanti!

Davide

Racconto di Valentina Pallotti

C’era un piacevole profumo di lavanda nell’aria. Nuotavo tra uno scaffale e l’altro, prendevo fiato, mi immergevo fino a raggiungere quelli più bassi e poi riemergevo, tiravo il naso all’insù per riprendere aria prima di una nuova immersione.
Aveva l’aria di un posto inesplorato, sotto quel sottile strato di polvere dei bellissimi scaffali di mogano, con il lodevole compito di tenere il peso della cultura. Ai miei occhi quello era uno dei posti più affascinanti in cui fossi mai stata, milioni di libri si arrampicavano su tutte le pareti, credo ce ne fossero anche sul soffitto, persino sul pavimento.
In quel momento mi guardavo attorno e l’unica cosa che volevo era essere un granello di polvere, infilarmi in silenzio tra quelle pagine, diventare parte di esse, e poi scivolare fino in fondo, lasciarle e sceglierne altre, con altri personaggi, altre avventure, altre emozioni.
Mentre gli occhi si riempivano di quella vista, sentivo il corpo in fibrillazione, le cellule impazzire, le papille gustative agitarsi, lasciavo che i polpastrelli accarezzassero le innumerevoli copertine, saltassero da un titolo all’altro, da un autore all’altro.
Finalmente quel posto era mio, dopo tanti sacrifici ero riuscita a mettere da parte la somma necessaria per comprare quella vecchia libreria; l’avrei messa a posto e sarebbe diventato un posto incantato, dove le persone si potevano innamorare, dei libri ovviamente.
Intanto fuori da quella porta la Vita scorreva tranquilla, incurante delle mie emozioni mentre uno ad uno prendevo i libri, li spolveravo e li accatastavo in un angolo in attesa di riportarli a nuovo splendore. Era dappertutto, nel traffico straziante che per tutto il giorno solcava la strada di fronte, nelle voci dei passanti, nelle suole delle scarpe che scricchiolavano mentre calpestavano l’asfalto, nelle ugole dei bambini piangenti perché le mamme non avevano comprato loro le caramelle da Miele&Felicità, negozio con cui la mia libreria divideva una parete…dappertutto appunto, ed un giorno entrò persino nel mio negozietto.
Ero così emozionata! Era la prima volta che ricevevo un cliente, e non sapevo come ci si dovesse comportare, se i capelli andavano bene arruffati o se era meglio pettinarli, se dovevo aiutarlo o lasciarlo libero di vagare per il mio universo. Optai per la prima opzione: me ne restai sulla mia poltroncina color cachè, aspettando ansiosa che fosse venuto da me a chiedere informazioni. Dopo aver fatto varie piroette tra i miei scaffali, si avvicinò, si mise seduto e cominciò a fissarmi…inutile raccontare il mio imbarazzo, cercavo di nascondermi tra le pagine del libro che stavo leggendo, facendo finta di non vedere che lui era a tredici centimetri dal mio naso, guardavo fuori dalla finestra, avvolgevo ripetutamente una ciocca di capelli intorno all’indice destro, ma lui niente, non si mosse. Ad un tratto si muove, estrae dalla tasca un pacchetto in carta zucchero; lo posa davanti a lui e si alza, va verso la porta e prima di richiuderla dietro di se mi sussurra >prendi: questo libro ti cambierà la vita<
Rimasi spiazzata, non sapevo come comportarmi, ma era evidente che l’unica cosa sensata da fare era aprire il pacchetto; così lo raccolsi e me lo avvicinai al grembo. Tolsi la carta zucchero e scoprii un taccuino dalla copertina color nuvola. Cominciai a leggere. Dalle prime parole mi ritrovai catapultata dentro la storia, come se l’ avessi già letta; sapevo quale parola avrei incontrato dopo quella che stavo leggendo, conoscevo le posizioni delle virgole, avevo già vissuto quelle sensazioni. Pian piano mi resi conto che quella storia era la storia della mia vita, che la protagonista che danzava tra le pagine ero io; insomma, quel libro parlava inspiegabilmente di me!
Andai avanti a leggere, e ad un certo punto mi fermo e mi ritrovo annoiata, stufa di girare la pagina perché già immaginavo quello che ci sarebbe stato scritto, in quanto tutte parlavano della stessa cosa, di una passione folle per la lettura, di una vita basata totalmente su questa. In quel preciso istante mi resi conto di quanto poco avessi vissuto realmente. Tutti i libri che avevo letto parlavano di avventure, di sentimenti, di passioni, di amori, di desideri; non erano noiosi, bensì avvincenti, inaspettati, cosa che non era stata la mia vita. Mi mancava tutto d’un tratto l’amore, l’amicizia, ma anche l’odio, il rancore…non avevo mai provato queste emozioni se non di riflesso nei personaggi dei libri che amavo, e per questo mi ritrovai ad essere profondamente triste.
Riaprii il libro e andai direttamente a vedere come finiva, ma mi accorsi che non c’era una conclusione a quella storia, che avevo ancora una possibilità di riscatto, che potevo cambiare. Capii che era ora di vivere quelle avventure che tenevo imprigionate nei miei sogni, di gettarmi nel flusso incessante della vita, in modo da dare al mio libro una conclusione degna, degna di essere la “mia” conclusione.

Racconto di Simona Sassaroli

Alla fine era accaduto. Bocciata. Cioè, in realtà non c'era scritto proprio bocciata. Il suo nome non figurava tra i promossi. Aveva scorso bene la lista, prima tutti i nominativi con la sua iniziale, poi anche gli altri, si sa mai, magari qualcuno di quei luminari del diritto che in cinque minuti scarsi avevano corretto i suoi compiti potevano anche essersi sbagliati. Stette per un po' completamente immobile davanti a quella bacheca dove dei fogli recanti il titolo “esame avvocato 2007- elenco ammessi all'orale” troneggiava spietatamente, lo sguardo perso nel vuoto, la testa bassa e il respiro affannoso. Davanti a sé colleghi praticanti esultanti si muovevano lentamente, quasi come in una di quelle scene al rallenty che si vedono nei film. Che poi lei lo odiava il rallenty, e ecco, se avesse potuto farlo in quel momento avrebbe schiacciato il tasto riavvolgimento automatico e avrebbe spento tutto. Ci pensò lo squillare del telefonino a risvegliarla. “No... non è andata...”. Al che spense il telefonino, lo mise nella valigetta in similpelle regalo di laurea, seppellito proprio sotto a due fascicoli d'ufficio che aveva ritirato quella mattina in cancelleria, e decise di comportarsi esattamente come se non fosse successo niente.
Uscì con passo spedito dal tribunale, salutò una delle guardie giurate che ormai dopo due anni avevano imparato a riconoscerla, e all'incrocio tra Via Garibaldi e Corso Matteotti, sotto un cielo nuvoloso che voleva presagire solo pioggia, inforcò gli occhiali da sole e iniziò a vagare senza una meta precisa, tirando ogni tanto su col naso.
In testa un unico pensiero “in fondo è solo uno stramaledettissimo esame”. Se lo ripeteva ad intervalli regolari di trenta secondi. Era arrabbiata di quella rabbia a cui in quel momento non riusciva a trovare un rimedio. Alla fine il rimedio le si piazzò inaspettatamente proprio lì davanti al muso, in una vecchia libreria del centro. Non quei posti comunemente chiamati librerie giuridiche dove l'unica scelta plausibile è tra un codice annotato con le ultimissime massime in materia civile o un manuale breve di penale in offerta speciale, ma proprio una di quelle librerie dove entri e puoi anche passarci un pomeriggio intero, se solo si avesse del tempo.
E arrivata a quel punto decise di regalarsi del tempo e in subordine pure un libro. Qualcosa da leggersi con calma, qualcosa da ricordare per il semplice gusto di tenerlo in mente.
Vagò per un po' tra gli scaffali dedicati ai classici in edizione scontata del trenta per cento e le ultime novità, lesse veloce qualche trama, ma non ci fu niente che riuscì a cogliere la sua attenzione.
Pensò che forse avrebbe avuto bisogno di un consiglio, anche di un minuscolo suggerimento, di qualcuno che riuscisse a mettersi nella sua testa e a comprenderla fino in fondo in quel momento, di una voce che le si presentasse lì vicino, e le desse una pacca sulle spalla accompagnata da un: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.” Rimase ancora una mezz'oretta in quella libreria dove confusa tra premi strega e ricci molto eleganti alla fine non si comprò proprio niente. “Nahhh...” si disse “ma può un libro cambiarti la vita?... Sarebbe troppo facile, magari ti possono aiutare, ma cambiarla addirittura, no... non credo. ” Fece spallucce, accennò un saluto ad una delle commesse e si avviò all'uscita.
Una volta fuori, si sentiva già meglio, un banale giro in una libreria in quel giovedì pomeriggio di inizio estate le aveva fatto quasi bene. Si tolse gli occhiali da sole, fece un respiro profondo, ne fece un altro, e riprese a camminare, arrancando un po' e con pensieri ancora confusamente indecisi. Però riprese a camminare. Era un inizio.

Il libro della vita

Racconto di Silvia Seracini

A mio nonno Floriano

“Ben arrivato, Floriano. Posso aiutarti?”, sollevando uno sguardo placido dalle pagine dell’enorme catalogo sul quale ricadeva la sua lunga barba.
L’altro, dalla testa un tempo di un biondo-tendente al rossiccio stretta fra le mani, aveva appena voltato lo sguardo verso di Lui, lasciando scivolare i gomiti sul lucido bancone.
“E a te chi te conosce?”. Gli aveva puntato contro due occhi lacrimosi e spaesati.
“Ma sono io che ti conosco. Allora dimmi, cosa posso offrirti?” e, scostando la barba, aveva preso a far scorrere l’indice nodoso fra le righe di quell’immenso volume.
“E che me voi offrì: è da una settimana che in ospedale nun me fanno magna’.”
“Mi dispiace molto, Floriano. Purtroppo sul tuo libro c’era scritto proprio questo. E in effetti io non parlavo di cibo, ma di libri: non di solo pane…”
“Ma de che libro stai a parla’? Io mica leggo mai. Al massimo il quotidiano de Ancona, il bugiardo’.”
“Intendevo il libro della tua vita.”
“?”
“E, se mi permetti di aggiungere, ora che il prestito di quel libro è scaduto, puoi prenderne in prestito un altro. Scegli pure quello che preferisci.”
“Ma che stai a di’?”
“Parlo della tua vita. Quella nuova, intendo”.
“Io a questo qui nun lo capisco.”, serrando di nuovo la testa fra le mani.
“Ti vedo indeciso. Se mi posso permettere… prendi: questo libro ti cambierà la vita.”. Così dicendo, aveva arrestato il dito in corrispondenza di un codice sul catalogo. “Che ne dici di una vita tutta diversa da quella che hai già vissuto?”




“Ma io non la vojo cambià. A me mi piace la mia, con mi moje, e i nipoti. E ci ho pure i pronipoti, el sai?”
“Certo che lo so: ne hai tre. E ti dirò di più, un quarto è in arrivo. Io so tutto”. Così dicendo, aveva accennato un compassionevole sorriso.
“Ma quando posso torna’ a casa? Gina sarà in pensiero.”
“Mi dispiace: tu non potrai tornare a casa. Per lo meno non a quella di prima.”
“Ma che voi di’?”. Si era cominciato ad agitare, guardandosi a destra e a sinistra alla ricerca di una via di fuga.
“Ma ‘ndo’ me trovo? Chi sei te? Come faccio a torna’ a casa?”
“Mi dispiace. Floriano: devi prendere un altro libro.”
“Ma che libro e libro”, cominciando davvero a dare in escandescenze, “io vojo tornà a casa. Mi’ moje Gina me aspetta per pranzo.”
A quel punto il vecchio aveva per un attimo affondato gli occhi nel folto della sua barba candida, riemergendone con un sorriso pieno di grazia:
“Floriano, tu hai avuto un arresto cardiaco una settimana fa, alla tenera età di novantatre anni. Ti trovavi su un autobus e sei caduto spaccandoti l’osso del collo. Il tuo cuore ha smesso di battere per diciotto minuti, poi i medici ti hanno sorprendentemente (per loro, non certo per me!) rianimato. Ti hanno portato in ospedale ma le tue condizioni erano troppo gravi perché tu potessi farcela. Sei morto dopo una settimana, cioè oggi.”
“Nun ce posso crede.” Si era nascosto gli occhi dietro una mano.
“Dovresti. E sarebbe anche il caso che tu scegliessi un nuovo libro. Ti piacerebbe diventare un pescatore di pescecani?”
“Ma se non so’ nuota’! Io so’ nato in montagna.”
Il vecchio barbuto aveva cominciato a spazientirsi:
“Ma che montagna e montagna: quella è acqua passata! Puoi scegliere un libro nuovo di zecca! Non ci sono limiti alla tua scelta! Puoi cominciare una vita tutta nuova. Dai, su: osa.”
“Il bugiardo’ de oggi ce l’hai?”
“Niente più passato né presente: solo futuro.”
“Ma che futuro ce posso ave’ senza mi’ moje? È da sessantacinque anni che stamo insieme…”
“Floriano, su, fai il bravo: queste sono le regole.”
“E mi’ moje?”
“Anche lei fra un po’ dovrà restituire il suo libro… se non sbaglio – si fa per dire: io non sbaglio mai! – lo ha preso in prestito ben novantacinque anni fa.”
“Ma come faccio a ritrovalla?”
“Scegli un libro: magari ci sarà dentro anche lei”. Era stato costretto a barare. Non era il suo solito, anzi deplorava qualsiasi tipo di menzogna, ma quell’ometto sembrava proprio insistente.
“Vabbè, allora dimmi in quale libro ce trovo pure Gina.”
Il vecchio aveva represso un sbuffo di insofferenza – “il solito lettore coi paraocchi”, aveva pensato – e con un sorriso paziente aveva tagliato corto:
“Quello che ti pare. In tutti troverai Gina, se proprio ci tieni così tanto.”
Solo allora Floriano si era deciso a dare un’occhiata al grosso catalogo posto fra lui e il vecchio. Senza pensarci più di tanto, aveva appoggiato un indice (quell’indice che aveva finito per diventare gonfio e segnato dai graffi della brutta caduta sul bus) in corrispondenza di una riga.
Lo sguardo del vecchio canuto si era finalmente illuminato:
“Molto bene”, aveva mormorato fra sé controllando il codice DSBN. Poi aveva richiuso il volume con un tonfo, sollevando una nuvola di polvere stranamente profumata.
“Allora? Nun me dici che libro ho pescato?”
A quel punto il viso del vecchio aveva assunto un che di birichino:
“Come mai adesso tutta questa curiosità?”.

Sogni di pane

Racconto di Santacchi Serena

Tic, tic, tic, il suono delle gocce che s’infrangevano nella vasca riportò Linda alla realtà.
Ora, dentro la sua testa rimaneva il deserto, lasciato dagli eventi abbattutisi su di lei come un uragano.
Continuava a rimbombare solo una voce nella sua testa, quella del vecchio Morfeo che le ripeteva:<>
Erano trascorsi sette giorni da quando, come tutte le notti, si era fermata come sempre a salutare il suo amico Morfeo alla panetteria.
Erano trascorse sette notti da quando aveva trovato Morfeo in fin di vita trafitto da una spada.
Morfeo il suo confidente di una vita, l’unico che capiva come mai lei lavorasse la notte e rientrasse la mattina presto; Morfeo, a cui non aveva mai dovuto dare spiegazioni, sapeva leggere nel suo sguardo, sapeva scorrere nelle sue vene per arrivare al cuore e leggere quanto la vita ci aveva inciso su con il più potente dei bulini.
L’immagine del corpo consumato da una vita fatta di lavoro e fatica riverso a terra era il ritornello che accompagnava i suoi occhi.
Morfeo era il pane, la crosta dura fuori, la mollica tenera dentro; i capelli canuti come farina, occhi come acqua di un torrente di montagna.
Quando si avvicinò al corpo quasi esanime sentì un potente profumo di lievito, non capiva da dove provenisse, dopo che Morfeo esalò l’ultimo respiro il profumo di lievito svanì, come svanirono intorno a lei i muri, gli attrezzi del mestiere di Morfeo, tutto si dileguò come se non ci fosse mai stato; dove era la piccola bottega che per tanto tempo le aveva offerto rifugio nei momenti peggiori della sua via?
Al posto dell’antico forno a legna rimase solo uno strano leggio che lei non ricordava di aver mai visto. Quello strano oggetto le penetrò nella mente come una lama tagliente, era come una voce assordante che con la forza scaccia ogni altro pensiero dalle orecchie di chi ascolta.
Si insinuò nello stomaco di Linda, agguantò la sua anima per trascinarla verso di sé.
Lasciò Morfeo a terra e come l’altra metà di una calamita andò verso il vecchio leggio.
Si guardò intorno e i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, videro che intorno non c’era più la città ma il Bosco.
Lo aveva riconosciuto subito, era Bosco, il compagno di giochi dell’infanzia, il consolatore dei momenti foschi dell’adolescenza.
Il primo amico che l’aveva abbandonata nella sua vita, il dolore più grande, il senso di vuoto incolmabile, ora era di nuovo intorno a lei e con lui il leggio.
Si avvicinò con passi incerti, non sapeva cosa ci fosse sotto il manto rosso di foglie autunnali.
Sopra il leggio il libro di Morfeo.
Piccolo, rugoso, consunto, con incisa nella copertina una frase che la riportò all’infanzia: <>.
La testa le cominciò a girare e con lei le sembrava che cominciasse a girare tutto, sentiva il suo corpo piroettare con le foglie che le danzavano accanto in armoniosi mulinelli; socchiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì di nuovo era accasciata sul marciapiede con il piccolo libro accanto.
Era sparito Bosco, era sparito Morfeo, la panetteria, ora c’erano solo lei e il libro.
Tornò a casa, era giorno ormai e il sole era alto, erano anni che i suoi raggi non lambivano più la sua pelle, un brivido le corse lungo la schiena, il terrore l’attanagliò, il suo passo si fece sempre più veloce, divenne una corsa forsennata come se fosse inseguita dalle fiere della sua infanzia. Raggiunse la porta, il fiato tornò ad avere un ritmo regolare, aprì l’uscio e non c’era più il suo appartamento ma Bosco e Quercia che con il fruscio dei rami le disse:
<>
<Lo ha invecchiato, distruggendo giorno dopo giorno, la voglia di sognare dei bambini.
Lo ha ucciso sostituendosi nei cuori, con la voglia di potere degli uomini, con le aspettative annientate delle donne.
Il libro, che Morfeo ti ha lasciato, sta diventando ogni giorno più piccolo e sottile perché il genere umano non riesce più ad uscire dalla gabbia in cui Realtà lo ha imprigionato.
Ora tocca a te Linda prendere per mano i bambini e farli sognare, tocca a te distruggere le sbarre d’oro che uomini e donne credono essere ciò che hanno sempre voluto.
Tocca a te Linda ricordargli perché ascoltando il canto degli uccelli sognavano di volare, devi essere te ad insegnare ai bambini che si può vivere di sogni.
Pensaci…tra sette giorni e sette notti deciderai se salvare il mondo come Morfeo a fatto con te o lasciare che tanti bambini crescano nell’aridità dell’anima.>>
Cominciò a piroettare come una ballerina di carillon, con lei le foglie del bosco, chiuse gli occhi e quando li riaprì era a casa sua, ogni cosa era di nuovo a posto come l’aveva lasciata lei la notte precedente.
Erano trascorsi sette giorni e sette notti, non sapeva se ci sarebbe riuscita ma avrebbe cominciato provando a salvare i sogni della piccola Tonia.

Legàmi marini

Racconto di Paolo Tramannoni

Un denso odore di catrame. Le auto mi sfrecciano rapide davanti, sollevando una malmostosa nebbiolina di fango umido. Sono appena uscito dal blocco roccioso del carcere. La mia visita è finita – per fortuna presto, come sempre. Speravo che ad attendermi ci fosse il tiepido sole di questo autunno clemente. Ma c’era invece il grigiore di una Pesaro dimessa, da fine settimana, con le sue auto che sfrecciano rapide e indifferenti fra i tigli di queste vie anonime. La visita si è conclusa senza saluti, senza melanconie, senza colpi di scena.
Lontano come sempre.
Padre.

Non attraverso le mura della città, perché non sopporterei il richiamo grazioso dei vicoli che si precipitano verso il centro. La cameriera del caffè ormai mi conosce, e mi cura con calore formale e protettivo. Chiuso in un silenzio intatto, lascio ancora un po’ nelle nari lo sfrigolio dell’odore di formaldeide della sala colloqui. Lascio che l’ombra dell’immagine rugosa e dura di mio padre ricompaia nella retina, un istante prima che si dilegui. Ma poi basta. Non ricordo nemmeno le due o tre parole che mi ha detto, distrattamente e per dovere. Anch’io, per oggi, ho già fatto il mio dovere di figlio. Posso finalmente accorgermi che la cameriera è carina. Non vistosa: semplice, non inavvicinabile. La raggiungo al bancone. Posso chiudere l’episodio con una stilla di dolcezza. Sei umana, mia estemporanea compagna. Di cose petrose, per oggi, ne ho avute abbastanza.

Compro il biglietto accanto alla stazione. Una giovane coppia, davanti a me, non finisce più di prenotare la vacanza, tra i consigli informati e premurosi di una signora di mezza età dagli occhi arrossati dall’allergia. Non pretendo di passare avanti. A me serve solo un passaggio per Ancona, ma non c’è fretta. Per una volta non mi irrita aspettare. Quest’attesa tra luci e parole mi risparmia una più lunga attesa tra i binari e l’odore d’olio di quella giornata bigia e appiccicosa. In fondo alla stanza, quello che può essere il figlio della signora continua a strillare al cane che, dispettoso e divertito, non vuol saperne di smetterla di latrare. Sono a casa.

Fuori, sulla panchina del binario tre, mi fa compagnia il battito dei miei piedi. Ritmico, musicale, a volte rabbioso.

A bordo, lo spazio aperto del vagone mi fa assistere in tutta la sua gloria all’ingresso trionfale di Dino, il poeta matto che vende in giro i suoi libri tirati a mano in qualche tipografia dimenticata. Con tigna, e una fiducia immensa nel proprio talento. Non ho mai voluto pendere un suo libro. Eppure, non mi è mai stato riservato, per qualche misteriosa questione di empatia, il brusco trattamento che ricevono a volte altri clienti (potenziali od effettivi). Non lo snobbate. Non trattatelo con sufficienza. Se vedete che i poderosi mustacchi neri di quel gigante pallido si mettono a vibrare, è un guaio. Ricordo di un ragazzo molto ben vestito, che non gli dava retta, preso per la collottola. Gli comprò tre raccolte, una per sé ed altre da regalare. O di un altro, dalla cui silloge appena acquistata Dino strappò serafico alcune pagine, che il tipo in questione “non avrebbe potuto capire”.
Passandomi accanto, stavolta si limita a scorciarmi con la coda dell’occhio e a passare oltre. Troppo nero, deve avermi visto, per aver voglia di perder tempo con me. Eppure ci ripensa, e mi accorgo di averlo davanti quando ormai mi sta fissando dall’alto.
“Ciao,” biascico.
“Tu hai bisogno di un po’ di poesia,” dice, i baffi piegati in un sorriso un po’ amico e un po’ cattivo.
“Forse,” dico. “O forse ho solo bisogno di una nuova vita.”
Mi porge la sua raccolta. “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.”
Guardo la bella copertina con l’inserto di carta-paglia stampata al torchio. Quando alzo gli occhi per dirgli qualcosa (“lo compro”? “non lo voglio”?) il colosso si è già dileguato. Alle mie spalle, la porta dello scompartimento si sta già chiudendo con il suo morbido sospiro metallico.

Mi guardo le ginocchia: il libro è aperto su una poesia molto breve:

Le vie del porto non sanno mai d’anice
tanto come quando
le ragazze hanno rifatto il bianco.
C’è azzurro alle finestre
e di sera s’infiamma al molo un’invetriata.

Sono qui. Ho percorso mille passi, ho aggirato le gru del porto, ho evitato il ciacolare dei piccoli bar che sanno d’anice, e sono arrivato al grigio condominio in batteria sotto la rupe del duomo. Una nave spezza l’umido rumore di fondo del porto con il suo possente richiamo da fine dei tempi. Un attimo prima che mi decida, dopo un lungo esitare sotto quei balconi anonimi senza fiori e senza grazia, a suonare il citofono.

“Sì,” mi risponde una voce di donna, consunta.
“Non ho appuntamento. Ho visto il suo annuncio nel giornale. Posso salire?”
Mi risponde il brusco scatto elettrico del vecchio portone di alluminio. Entro, salgo. Le scale sanno di formaldeide.

“Paola.”
Mia sorella mi guarda dall’uscio, senza ancora aprire. Sorpresa.
“Ho visto papà.”
Mi fa entrare. Dobbiamo dirci molte cose.

Racconto di Monia Orazi

La luce rossastra che filtrava da dietro la persiana, la svegliò. Erano da poco passate le sette, e sul pavimento della camera, vedeva sottilissime linee d'ombra.

Lia era distesa, si scosse un po' dal torpore pomeridiano e si stropicciò gli occhi. Si tirò su piano piano, si mise a sedere sul letto. Allungò le braccia verso l'alto, tirò indietro il collo, lo stirò come una gatta, si passò le mani tra i lunghi capelli, sistemandoli dietro le spalle.

Era ora di andare. Davide l'aspettava per cena, ed una leggera ansia l'assalì prima di prepararsi. Raggiungere Trastevere in tram, dover affrontare una lunga tavolata di volti sconosciuti.....”Chissà come andrà?”, disse a voce alta.

Alla Trattoria “Da Gino” era già stata tante volte. Tovaglie con grandi scacchi bianchi e blu, bicchieri di vetro liscio, pieni di vino rosso, nell'aria un leggero aroma di soffritto che ti penetrava sottile nelle narici, lì si sentiva a casa. Solo che stasera il suo Davide, le presentava per la prima volta gli amici e lei si sentiva come alla vigilia di un esame importante. “Cosa mi metto?”, si chiese. Rovistò nell'armadio. Venne subito fuori quel paio di jeans neri che le stavano così bene. Ci abbinò una camicia bianca, tirò fuori il giubbetto di pelle nera. Le scarpe con il tacco quelle no, meglio le ballerine di vernice per affrontare l'acciottolato di sampietrini. Erano ormai le sette e venti. Si passò il gloss sulle labbra, una spazzolata ai lunghi capelli, un filo di ombretto castagna per far risaltare gli occhi nocciola. Si sorrise, guardandosi allo specchio.

Lentissimamente si avviò alla fermata, aspettava il 77. Guardò la vecchia signora seduta, infagottata in un cappotto color cammello, il foulard fantasia verde petrolio, un sacchetto scuro nella mano destra, l'aria rassegnata. “Non voglio diventare così – si disse – ma cosa vado pensando, manca ancora un sacco di tempo, ho solo 28 anni”.

Si immaginò le scene della cena, e bottiglie che passavano di mano in mano, i brindisi, le risate, gli schiamazzi, gli scherzi, la bella allegria di una comitiva di ragazzi. “Ce la farò - concluse – andrà bene, piacerò ai suoi amici”. Teneva molto a Davide, e voleva fare una buona impressione.

Lo sferragliare del tram interruppe i suoi pensieri. Si mise in fondo e chiuse gli occhi, aveva venti minuti per rilassarsi. Si vide fare una passeggiata, nel suo giubbotto nero, con l'ombra lunga sul selciato della strada, camminare per le strette vie. Trastevere era uno di quei luoghi del cuore in cui andava sempre volentieri, la parte di Roma che preferiva, un paese, dentro la città.

Le piaceva molto il vecchio palazzo dei conti Accoramboni, disabitato da decenni. Si fermava sotto il grande portone in legno, a guardare i fregi sopra le finestre. Piccoli putti, con le faccine smorfiose, si intrecciavano al fogliame e agli uccelli. Dietro gli scuri chiusi, immaginava lunghe sale polverose, con le pareti coperte di arazzi, lampadari di cristallo, grandi specchi dalla cornice dorata. Un mondo magnifico, ormai in rovina.

A due passi dal palazzo, girato l'angolo, c'era la libreria di sor Erminio. Tutto era rimasto come 40 anni fa. Grandi scaffali di legno chiaro, pieni zeppi di libri. In fondo il grande bancone in rovere. Potevi trovarci di tutto. Prime edizioni in folio, polverosi libri in pelle, titoli sconosciuti, volumetti ingialliti. Un bazar della lettura, nel cuore di Roma.

Entrava volentieri e passava ore spensierate. Erminio ne aveva vista tanta di gente, e aveva sempre aneddoti da raccontare. Si ricordò della prima volta che lo aveva conosciuto, dieci anni fa, in un afoso pomeriggio d'estate. Aveva il gelato in mano, e cercava un po' d'ombra. Svoltato l'angolo di via Giacinti, aveva visto l'antico palazzo dei conti. Qualche metro più in là la libreria.

Erminio aveva l'aria burbera, i capelli brizzolati, la fronte alta. Quello che l'aveva subito colpita erano i grandi occhi scuri, che ti si stampavano in faccia appena ne incontravi lo sguardo, magnetici. “Posso esserle utile signorì?”, le chiese. “Cerco un libro da leggere al mare”, rispose visto che il giorno dopo sarebbe partita per le vacanze. “Prendi: questo libro ti cambierà la vita”. Guardò il titolo e rise forte. “Alice nel paese delle Meraviglie”, di Lewis Carroll. “Cosa me ne faccio? Ho 18 anni, non mi servono le favole”. “Nun te sbaglià signorì – rispose sor Erminio col suo vocione – anche se cresci nun perde mai l'immaginazione che cianno i monelli. Sarà la tua ricchezza più granne”.

Acquistò il libro e lo portò con sé. Iniziò così la sua avventura. Le bastava chiudere gli occhi, per poter creare tutti i mondi che voleva, riempiendo pagine bianche con le sue avventure.

Lia Frassoldati, a 28 anni aveva già pubblicato sei libri ed era una delle finaliste, al premio Strega di quell'anno. All'improvviso sentì uno scossone, lo stridore di freni, sbattè la testa contro il vetro, aprì gli occhi, guardò fuori. C'era Davide ad aspettarla. Sorrise e pensò alla bella serata che l'aspettava.

Qualche pagina indietro

Racconto di Michele Pinto

- Vai a quel paese!
- Luigi calmati!
- Calmarmi? Con tutto quello che mi è successo tutto quello che sai dirmi è “Prendi: questo libro ti cambierà la vita”. Bell’amico sei. Ospitami qualche giorno a casa tua, dammi un aiuto per farmi perdonare, un contatto per trovare lavoro... No, mi dai un libro, gran bello sforzo, grazie Claudio.
- OK, adesso sei arrabbiato, ti capisco. Dormici su e ne riparliamo.

Sotto lo sguardo incredulo di Luigi Claudio si allontana lasciandolo solo con il libro ed i suoi pensieri.
Non avrebbe dimenticato facilmente quel sabato 25 ottobre. La mattina Daria, sua moglie, lo aveva scoperto in un atteggiamento inequivocabile con la segretaria.
In un solo colpo Luigi fu sbattuto fuori di casa e perse il lavoro (l’azienda era del padre di Daria).
La prima cosa che gli venne in mente fu di chiamare il suo amico di sempre, Claudio, ma questo se ne era uscito con quella storia assurda del libro.

- Se ne è andato davvero. “Dormici su” dice. Facile per lui, io non so nemmeno dove andrò a dormire stanotte. Magari quel libro lo userò come cuscino su una panchina e mi cambierà la vita curandomi la scogliosi. Che razza di amico!

In un impeto di rabbia Luigi scagliò il libro per terra. Ne uscì un foglietto di carta. Sopra era annotato un codice, un orario ed un luogo, l’aeroporto. Senza nemmeno rendersene conto, prese l’autobus verso l’aeroporto.

- Daria non mi perdonerà mai. Ho 45 anni, ho sempre lavorato nella stessa azienda, sono abituato a spendere tanto. Cosa mai potrò fare?

Una voce interruppe i suoi pensieri: “Biglietto, prego”. Non aveva il biglietto, non aveva nemmeno pensato ci volesse un biglietto per salire sull’autobus, abituato come era a viaggiare in taxi.

- Ora lo cerco. Lo avevo messo qui… sono un po’ distratto.

Infilò le mani nel cappotto come per cercare il biglietto imbastendo una patetica scenetta per tentare di impietosire il controllore. Le sue mani incontrarono il libro di Claudio e, senza che lo avesse notato prima, trovò un pezzo di cartoncino utilizzato come segnalibro. Lo mostrò al conduttore. “Si va bene, grazie”.
Incredulo guardò il cartoncino, era proprio un biglietto, ed era stato obliterato solo poco prima. Confuso aprì il libro per leggerlo, ma l’autobus si fermò davanti all’aeroporto, mancava poco all’orario scritto nel biglietto e rinunciò a leggere avviandosi al banco informazioni, scoprendo che quel codice era in realtà un biglietto aereo acquistato via internet.

Finalmente si accomodò sulla sua poltrona pronto a prendere il volo. Tanta era la preoccupazione per quello che stava accadendo nella sua vita e lo stupore per quel viaggio impossibile che non pensò nemmeno a chiedere quale fosse la destinazione del volo. “Se devo ricominciare una nuova vita un posto vale l’altro”.
Approfittando della calma finalmente aprì il libro ed iniziò a leggere. Il volume spiegava le teorie sulla Relatività: “Più aumenta la velocità più il tempo rallenta e la massa aumenta. Il limite massimo è la velocità della luce, 300.000 metri al secondo, a quella velocità il tempo soggettivo si ferma. Se si andasse oltre quella velocità si tornerebbe indietro nel tempo”.
Luigi non aveva la minima voglia di pensare a questioni scientifiche, chiuse il libro e si addormentò.

I suoi sogni furono agitati, ripensò agli ultimi mesi, quando aveva assunto quella nuova segretaria, a come l’aveva corteggiata, non perché ne fosse innamorato ma semplicemente per mettere alla prova il suo fascino 45enne. Ripenso a come finalmente lei aveva ceduto alla sua corte, più per non contrariare il suo capo che per altro e a come erano stati scoperti proprio quella mattina.
Poi il sogno lo riportò più indietro nel tempo, ricordò il suo matrimonio, i bei momenti passati insieme a Daria, sua figlia Ilaria, e tante altre cose che aveva perso per sempre. Era molto più triste la perdita della sua famiglia che la perdita del suo lavoro e della sua agiatezza economica.
Fu svegliato dalla voce del capitano: “Stiamo per atterrare a Roma, la temperatura esterna è di 10°C, l’ora locale segna le 17:45 di venerdì 24 ottobre. Grazie per aver volato Relative AirLines”.
- Roma? Ma siamo partiti da Roma che senso ha tutto questo?
Luigi non fece caso alla data. Sceso dall’aereo si avviò verso l’uscita, pensoso. Si svegliò dal suo torpore solo quando una bambina gli si gettò addosso in corsa gridando: “Papà!”
- Ilaria? E ci sei anche tu Daria!
Luigi era convinto di sognare ma Daria si avvicinò e gli diede un leggero bacio sulle labbra. Fu il sapore di quel bacio a fargli capire che era tutto vero. “Ci sei mancato”.
“Domani mi porti a Perugia per la fiera del cioccolato?” chiese la bambina.
Luigi si sentì trasalire. Era la stessa cosa che le aveva chiesto sua figlia il giorno prima. Aveva risposto che non poteva, anche se era sabato sarebbe dovuto andare ad un’importante colazione di lavoro con la sua segretaria e dei clienti stranieri. Ovviamente era una scusa.
- Certo! Sono felice di passare una giornata con le mie donne.

Racconto di Marialetizia Dipalma

Due ore, due ore dopo le dodici.
Silenzio tutt'intorno. Nell'aria calda solo qualche coraggiosa cicala ad interrompere la quiete pomeridiana.
Due ore, due ore dopo le dodici.
Per strada solo l'ansimare d'un cane – canemezzo il suo nome-, qualche foglia danzante con il vento, una vecchia che s'affretta a raccogliere i panni stesi – quando il cucuzzolo si ricopre di nuvole è segno che il temporale è vicino – ed in lontananza, dalla vecchia osteria in fondo al vicolo, lo sferraglio di posateria degli ultimi ritardatari.
Due ore, due ore dopo le dodici.
Cicaleggia l'aria e il cielo par quasi rispondergli, accennando timido qualche tuono. Per strada il canemezzo, le foglie, la vecchia che tira via i panni, il cielo gonfio ed un uomo.
Un uomo. Per terra una valigia di pelle cremisi.
E' sceso da una corriera mezza sgangherata e fumosa due ore, due ore dopo le dodici.
Che poi, cosa ci facesse quell'uomo a quell'ora d'un pomeriggio di luglio caldo e tuoneggiante in mezzo alla strada con una valigia di pelle cremisi è lunga e misteriosa cosa da dirsi, affascinante quanto la vita che ti sorprende nelle sue pieghe nascoste ed inaspettate, doloroso come il malanimo che serpeggia talvolta nelle ossa, lieve come l'amara dolcezza del ricordo.
Ma torniamo all'uomo.Lui è ancora li.
Fermo ed immobile in mezzo alla strada calda. Una maglietta di lino bianca, un pantalone beige, ha le scarpe vecchie ed lo sguardo azzurro del cielo. Cinquant' anni forse. Portati male dico io.
Si guarda intorno, cerca con lo sguardo qualcosa di familiare ma si sente straniero come chi torna dopo tanto tempo, come chi lontano da tutto e da tutti non ritrova più nulla di se stesso nelle cose vissute da fanciullo. Le case, le strade tutto sembra strano ora che lui è tornato, anche il temporale che sta arrivando, - aveva ragione il vecchio detto – anche il temporale non sembra più lo stesso di quando bambino, gli occhi appoggiati al davanzale, ne temeva ed invocava l'arrivo.
Insomma quell'uomo è lontano ed è perso e mentre cerca un sasso, una foglia, una qualsiasi cosa a cui aggrappare il ricordo, d'improvviso si volta e incontra lo sguardo furbo e sornione del cane che attratto da quella roba cremisi abbandonata per terra ha appena pisciato sulla valigia.
L'uomo lo guarda. Non gli importa se il cane ha fatto quello che ha fatto. Lui si sente perso e non sa che fare. Sembra pentito di essere sceso da quella corriera due ore dopo le dodici.
Ma ora sono le tre ed il vecchio campanile suona... Don don don ... e l'uomo ha un sussulto ..
“allora- pensa- qualcosa c'è ancora, qualcosa è ancora immobile come lo era prima, qualcosa è rimasto in questo posto a ricordarmi di me”. Preso da questo momento di commozione, incurante della valigia mezza pisciata dal cane, s'incammina ed un moto del cuore lo sospinge verso la donna che lo attende dall'altra parte della strada.
E' giovane la donna ed è bella. Ha lunghi capelli neri, lucenti come velluto e gli occhi scuri come pozzi artesiani. Ve la dovete immaginare questa donna, è come una statua, altera e umile nello stesso tempo con un vestito leggero mosso dal vento portato da quell'uomo triste, un po' vecchio, con la valigia di pelle cremisi.
I due si guardano e nulla si dicono se non dirsi tutto nel silenzio assordante di quel pomeriggio. Sono parole silenziose che escono dagli occhi , emozioni raggrumate dal tempo, sedimentate dai 10 lunghi anni di lontananza che li hanno separati.
Sono vicini l'uomo e la donna e mentre la pioggia comincia a bagnare l'asfalto bollente ed il canemezzo cerca rifugio tra i tavolini di plastica accatastati in un angolo, s'abbracciano per lunghi istanti, raccontandosi nelle carezze sul viso quello che non potrebbero dire in altro modo, e l'abbraccio è insieme passione e perdono, un balsamo che addolcisce i “perchè te ne sei andato, io ti ho aspettato tutto questo tempo ti credevo morto ti odio ti odio ” ed altera lo spazio, il tempo, la pioggia che ora scende come cascata, il cielo diventato nero come pece, le campane che suonano incessanti, i mille occhi nascosti alle finestre - ce ne sono sempre in tutti i paesi quando scende un uomo da una corriera – l'odore acre delle foglie di platano bagnate dalla pioggia.
Il tempo non esiste più. Il canemezzo è scomparso, tutto ora è fermo di nuovo.
L'uomo si scosta dalla donna, si china per terra, apre la valigia color cremisi.
Ne estrae un libro, pieno di segni, ingiallito come le dita delle sue mani che puzzano di nicotina, lo prende e lo porge alla donna.
“Prendi: questo libro ti cambierà la vita”
Poi s'incammina verso il vicolo in salita. Va a casa l'uomo.
La donna guarda il libro. Se lo porta al seno, come una madre un figlio. Ne tocca il dorso e poi con un leggero sguardo voluttuoso ne legge il titolo:
“Due ore dopo le dodici.”
E d'improvviso la vita torna a muoversi suonano le campane, s'aprono le finestre, cessa di piovere e un timido sole illumina il canemezzo che scondinzolando annusa l'angolo della strada.

Jeremy

Racconto di Jonathan Martinangeli

Io non lo volevo prendere quel libro. Invece Jeremy insisteva con quella sua espressione convinta e ferma, di colui che sa, di colui che ha la verità assoluta in tasca e per un attimo decide di condividerla.
Io non lo volevo prendere quel libro. Così inodore, così incolore, così insignificante ed innocuo.
Dall’ultima volta mi ero sinceramente ripromessa che non avrei mai più letto un libro innocuo in vita mia. La vita non l’avevo ancora venduta ed io mantengo sempre le promesse. Dopo aver gustato la pienezza e la consistenza del tuorlo come puoi tornare all’albume viscido.
Io non lo volevo prendere quel libro. Desideravo avere tra le mani qualcosa di pericoloso, uno strumento imprevedibilmente imprevedibile. Avevo voglia di un mucchio di carta capace di colpirmi direttamente lì alla bocca dello stomaco, dove colpiva mio fratello da piccoli quando litigavamo. Non avrei mai dimenticato quei pugni ed allo stesso modo non avrei voluto mai dimenticare un libro che avevo letto…bè non proprio allo stesso modo.
Certamente, quel bacio furtivo passionale rubato alla ragazza del tuo migliore amico nel bagno della scuola, il fuoco ardente nel rosso dei capelli della tua professoressa di inglese, la lingua ruvida a l’alito fetente del tuo cane alle sette di mattina o lo sguardo commosso e soddisfatto di tua madre il giorno della tua laurea. Neanche questo l’avrei mai dimenticato per fortuna, ma era diverso.
Io non lo volevo prendere quel libro. Non volevo che chissà, magari qualche illustre semi-sconosciuto, che se ne va spasso con una castagna in tasca per prevenire i malanni di quest’autunno umido e frizzante mi consigliasse un libro da leggere. Del resto si sa, i libri non si scelgono. Tu puoi solamente fare una prima selezione in base al colore della copertina, al titolo o alla grandezza, se vuoi allo spessore, all’odore della carta. Se proprio non hai alternative puoi rifugiarti dall’autore che conosci o che hai sentito nominare alla tele come uno che scrive bene. Il prezzo, secondo me, è in assoluto tra le ragioni poco plausibili, la meno fantasiosa delle scuse, in coda alla classifica delle banalità su cui basare la propria scelta.
L’unico fatto certo è che poi, alla fine della fiera, sono i libri a scegliere te.
Io non lo volevo prendere quel libro. Non mi aveva scelto e ne ero sicura al cento per cento. Loro ti chiamano e spesso lo fanno a gran voce, ma stavolta non mi aveva chiamato nessuno punto e basta. Del resto se non li senti non è che si possano affibbiare colpe qua e la, è il destino, è come nascere in un posto invece che in un altro. Ovviamente puoi non ascoltarli se non vuoi averci niente a che fare, bè…quello però è un problema tuo e non è il mio caso.
Io non sentivo nessuna voce, nessuna chiamata, niente squilli, ne sussurri, ne fischi. Niente “ehilà…sono qua sotto tra i suicidi Horby e i Capitani Oltraggiosi di Lansdale”, niente, niente di niente, niente di niente di niente.
C’era solamente lo sguardo di Jeremy a fissarmi, era la filtrato dalla montatura demodè di tartaruga degli occhiali. Odiavo quel tipo di montatura. Quello però si che lo sentivo, lo percepivo e l’avrei percepito anche se fossi stata cieca. Accomodante e sereno mi guardava come un Buddha bello ciccio, lucido e seminudo, che avvolto da un mare denso e arancione di stoffe preziose catechizza e rasserena i suoi fedeli. Potevo quasi sentire l’aroma dell’incenso. Stava catechizzando anche me, così senza parlare, solo con la sua coscienza interiore, quel maledetto e pacato essere luminoso. Tu che tutto sai e tutto vedi, hai scelto me come tua figlia e con me vuoi condividere il segreto della serenità che a quanto pare sembra essere racchiuso in un libro.
Io non lo volevo prendere quel libro. Volevo solamente entrare in questo negozietto tutto polvere e muffa, dall’aspetto decrepito, vagabondare in penombra tra gli scaffali rastrellando la maggior quantità possibile di colonie di batteri ultracentenari col dito medio della mano sinistra e rimanere li sospesa da sola con me stessa. Ma non andò esattamente così. Quando incontrai il caramello familiare del cappotto di Jeremy mi resi subito conto che non avevo idea di cosa mi sarebbe capitato e così fu. Parlammo ed uscimmo dal negozio. Parlammo e camminammo e parlammo. Camminammo e lui mi parlò con tono semplice e leggero ed io ascoltai il mio profeta con attenzione ed umiltà. Poi io parlai e lui mi ascoltò. Camminammo. E parlammo.
Io non lo volevo prendere quel libro. Ma davanti alla vecchia quercia bagnata e quasi spoglia, tra la nebbia e l’odore della terra umida disse: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita”.
Io non lo volevo prendere quel libro...
Così lo presi.

Problemi reazione vita

Racconto di Francesco Gentilucci

IL mio problema maggiore era di scegliere un giusto anticalcare. Pubblicità del cazzo. Passavo più di un ora impallato da quei programmi in tv e mi sentivo peggio che se mi fossi fatto uno spinello. Altro che calma piatta, quel cazzo di scatolone mi stava succhiando l’esistenza. E non c’era nemmeno niente di meglio da fare che starsene seduti ad aspettare che la polvere mi cadesse addosso come la neve fa d’inverno. Cadendo su tutto, depositandosi lentamente, felice, triste, allegro o vivo che potevo essere. Tutto quello che mi concedevo di fare era di guardare la televisione, non ero mai in vena di uscire, con la mandria di frenesia della gente che sentivo fuori. Di addormentarmi poi, non se ne parlava proprio, il mio corpo si rifiutava di starsene in posizione orizzontale più di 7 ore a notte. Mi svegliavo intorpidito dal sonno, cercando di scrollarmi di dosso l’ultima essenza di depravazione, che mi rattrappiva come una morsa. Ecco quello che succedeva ogni mattina: mi svegliavo, facendomi succhiare l’esistenza da qualche cazzo di specchio che mi guardava autoritario pronto a trovarmi mille difetti, e proprio quando mi sentivo pronto per uscire dovevo affrontare la prova di stare ore a farmi stordire la vita da qualche fottuto capo o gente che faceva continuamente domande e sapeva sempre meglio di me cosa dovevo fare. Arrivato all’ora di pranzo ingollavo senza gusto qualcosa alla svelta per tirarmi su, lasciandomi stuprare i polmoni da qualche sigaretta e lo stomaco da un caffè amaro sceso dalla macchinetta in plastica. Tornato dalla pausa ricominciavo come prima. Tornavo con la mia cazzo di macchina la sera, rigata puntualmente da qualche frocietto con le chiavi, mentre era parcheggiata, incazzandomi con qualsiasi cosa o persona che si trovava in traiettoria con le ruote della macchina. Arrivavo a casa e mi sentivo solo. Ma non era solitudine, era vuoto. Per placare la solitudine bastava chiamare qualche amico o la ragazza per farmi compagnia e finiva tutto. Invece con il vuoto non potevo farci niente. E non ero un poveraccio indifeso con un obbiettivo che non riusciva a realizzare. Ero uno che fino a qualche anno fa era una persona “normale”, con un lavoro e tutto il resto. Poi ci fu il libro. Trovandomi sbronzo un sabato sera fra dei barboni, rimanendo due gironi per strada, stringendo la vita più di qualsiasi altra amicizia avessi avuto nei miei 25 anni di vita. Poi il lunedì ricominciai tutto da capo. Cercando di sfogare tutta la rabbia battendo i diti sul computer, mentre i miei altri colleghi punzecchiavano la tastiera con mille suoni uguali che mi davano a dir poco sui nervi. Ti sei mai chiesto dove va tutta questa rabbia? Non svanisce mica sui tasti del computer. Io lo so dove va a finire, me lo ha spiegato un barbone per strada. Arricchisce la tua anima e poi puoi decidere tu se fartela succhiare o no dalle cose. “Prendi questo libro, ti cambierà la vita.” mi disse quel barbone. Tutti i passanti pensavano fosse uno psicopatico, ma io ero troppo gentile e ubriaco per rifiutare, quindi accettai di buon grado e barattai quell’oggetto con un quartino di vino brucia-budella che avevo con me. Mi ricordai di averlo dopo qualche giorno, quando avevo già ripreso il lavoro e stavo svuotando gli ultimi residui di sbronza.
Era vuoto.
Pensai subito che dovevo scriverci su qualcosa, o che cercando fra le pagine avrei trovato qualcosa di già scritto. Ma niente. Nemmeno una singola cazzo di parola. Dopo aver pensato che quell’uomo fosse veramente psicopatico capii qualcosa. Lo appoggiai aperto sul tavolo con accanto una penna, pronto per scriverci qualcosa di importante non appena ne avessi avuta l’occasione. Dopo due mesi non c’ era assolutamente niente. Iniziai a pensare a tutta la mia vita in quel momento, a quanto mi sentissi vuoto, al passato, al presente e quella stupida invenzione che è il futuro che ci rovina da sempre l’esistenza assillandoci su cosa potrebbe succedere. Forse un libro non mi ha cambiato l’esistenza, o forse si. Non so se ho voltato pagina o se forse avrei dovuto giudicare i libro guardando la copertina. Quello che più conta è che su una pagina scrissi qualcosa: PROBLEMI REAZIONE VITA. Senza sintassi.
Cosa me ne faccio ora del libro? Niente.
Se mai vi incontrerò baratterò il libro con qualcosa da mettere sotto i denti. Le pagine sono ancora completamente bianche.
Bianche perchè la pagina che ho scritto non c’è più, la porto in tasca stretta con me mentre cerco di addormentarmi, fra il freddo di questa notte e il rumore delle macchine rigate che sfrecciano incazzate per la strada.

Racconto di Francesca Marchetti

Andava passo lento verso il resto del viaggio che lo attendeva, al deserto che lo circondava e che lo stava per inghiottire come un cornetto inzuppato nella schiuma di un cappuccino (un cappuccino! nel sole cocente, pensava al cappuccino!).
Partito alla ricerca di qualcosa che solo superficialmente poteva essere la ricerca del suo se', come aveva detto a tutti, in realta' era una fuga calcolata per avere conferma di non essere qualcun altro.
Era finito nel deserto, dove il caldo gli appesantiva i pensieri e il sudore glieli scioglieva in nuvole invisibili. Non aveva mai sopportato la fatica fisica, non aveva mai fatto jogging, non si era mai fatto avanti alle proposte (femminili, soprattutto) sulla "passeggiata-perche'-fa-bene" (a cosa? alla coscienza? la mia coscienza sta bene seduta, aveva risposto).
Eppure eccolo la'. Tolte le apparenze, tolta la coscienza e la tuta larga, si avviava solitario fino alla prossima duna e alla prossima oasi dove fermarsi e guardare la gente dall'esterno. Forse dall'esterno ci aveva sempre guardato il mondo, se vogliamo dirla tutta, senza farne parte attiva ma lasciandosi calare nel ruolo del pigro osservatore; quello che sulla Prospettiva guardava ogni vetrina dei negozi solo per sbirciare i tavolini e trascinarsi cosi' fino a casa.
Non c'e' verso di far cambiare l'indole di una persona, si era detto e gli avevano detto, ma saperlo non arrestava 'gli altri' a continue ed obbligatorie paternali su come doveva uscire dalla sua gabbia accidiosa. L'unica sua forma di vita sociale era la frequentazione, assidua, delle adunate di amici per la colazione al bar e l'aperitivo al bar. Sempre lo stesso bar, ovviamente, quello a cento metri da casa. Li' se ne stava ad ascoltare i racconti e le lamentele degli altri, raramente intercalando il suo pensiero, silenziosamente raccogliendo storie e personaggi. Per fortuna ancora lo sopportavano. Una ragazza, nemmeno a pensarlo, non dopo l'ultima, che lo aveva lasciato per un culturista del quartiere piu' a nord.
Giocava in Borsa, ma dal suo portatile da casa. e con le sue doti e il suo intuito, aveva messo da parte una fortuna. Non aveva bisogno di un altro lavoro, solo per occuparsi il tempo. Gli piaceva rischiare e divincolarsi tra azioni e valute, e il resto della giornata o serata lo passava leggendo libri o ascoltando dischi, che acquistava rigorosamente da internet. Le librerie gli mettevano ansia, e i negozi di dischi erano brulicanti di invasati o saccenti, per cui se ne teneva alla larga.
La sabbia che aveva adesso nelle scarpe e che gli pizzicava la pelle lo distrasse per un attimo dalla riflessione su di se'. Una nuvola (vera, questa volta) aveva coperto per un attimo la grande stella, e la sua mente era spontaneamente volata alle immagini della sua vita. Come si sa, la solitudine piu' comunemente considerata estrema (quella in un deserto, appunto) fa riflettere. E' quello che ci si aspetta di fare affrontando in faccia una duna, immobile e silenziosa nel suo letto di granelli.
Aveva montato la sua nuova identita' di esploratore per assicurarsi che quello che era tutti i giorni (un sornione curioso nella sua tana) fosse proprio il suo io, inattaccabile. La missione stava procedendo bene, e non vedeva l'ora di sorprendere le persone che lo aspettavano a casa con queste prove schiaccianti. Non avrebbe cominciato a viaggiare piu' spesso, dopo il suo ritorno, spinto da una voglia insaziabile di stimoli geografici per ovviare al paesaggio di ogni giorno. Avrebbe fatto tutto esattamente come prima, ma aprendo una guida Lonely Planet dedicata al luogo che stava attraversando avrebbe certamente associato nuove immagini e colori, suoni e silenzi, odori e percezioni tattili, nuovi sapori. Niente foto, niente racconti in pubblico, niente "guarda, e' un luogo magico che non ti posso descrivere, sensazioni che non ti posso ripetere, devi per forza andarci". No, no, niente imposizioni di giudizio (come quella volta che lei gli presto' un volume consumato dicendogli "prendi, questo libro ti cambiera' la vita": non era cambiato proprio niente, nella sua).
La nuvola, solitaria anch'essa, era passata oltre proseguendo la sua passeggiata. Si scorgeva gia' l'infuocata visione del villaggio, ancora un po' lontana ma estremamente vicina nella concezione dello spazio in quel continente. L'acqua non stava nemmeno finendo, era proprio a posto, soddisfatto di percepire il suo viaggio cosi' come il desiderio di ritornare nel suo appartamento. I granelli di sabbia erano adesso meno oppressivi, meno compatti, quasi giocosi. sembravano muoversi per un movimento sotterraneo.
Pero' che strano, sentiva come degli aghi conficcati nella caviglia destra, da cui si stava sprigionando un dolore acuto, che sapeva di fuoco ma ghiacciava le membra. Strano, quel torpore che risaliva dalla stessa gamba, fino all'inguine, allo stomaco, no, ora fino ai polmoni...si sta prendendo le braccia...il collo.....non sente piu' le labbra.....ecco.....ma che succede.......

Il segreto è nelle pieghe. Devono essere nette, ben definite.

Racconto di Diletta Fabiani

Dan sudava chino sul tavolino striminzito, le mani troppo grandi impegnate in un lavoro troppo preciso. Tuttavia non desisteva, la punta della lingua all'angolo delle labbra, un'espressione di concentrazione assoluta in volto.
Sollevò la testa, muovendo i muscoli doloranti; in quel bugigattolo puzzolente non c'erano finestre fuori dalle quali guardare, perciò chiuse gli occhi e si abbandonò sulla sedia.
Ancora.
Quella riflessione lo scosse dal suo momentaneo ozio, spingendolo ad aprire gli occhi ed a sfiorare appena il libro aperto: sotto le sue dita la carta era umida, porosa, inadatta.
Ma non riesco a pensare ad un altro modo...
Dan chiuse il libro ed osservò la copertina scolorita, pensando al suo vicino. Una persona che aveva sempre reputato normale e perfettamente inserita nel Sistema, col suo solido impiego agli Uffici Centrali; un individuo cortese che lo salutava ad ogni incontro, dicendo magari due parole sul tempo... quella stessa persona che un giorno aveva bussato alla sua porta con un pacchetto marrone.
<< Mi farebbe un' immensa cortesia? - gli aveva detto con quel suo tono di voce basso e quieto, perfettamente normale – Devo assentarmi per alcuni giorni, potrebbe custodirmi questo? >>
Dan aveva accettato perché era un gesto da buon vicino, di quelli che distinguevano la loro società da quelle caotiche del passato; ma era rimasto pietrificato quando aveva realizzato che il vicino non sarebbe tornato a prendersi il pacchetto, perché era stato giustiziato come terrorista.
Evidentemente quell'individuo era stato un soggetto pericoloso; Dan era ben contento che il Sistema avesse provveduto ad eliminarlo per la sicurezza di tutti. Però...
A me sembrava proprio una brava persona.
Per quel motivo non aveva consegnato subito il pacco alla Polizia. L'aveva fissato da un capo all'altro della cucina per due interi giorni, come se fosse una bestia feroce.
Ma alla fine l'aveva aperto.
Forse lui sapeva che non avrei resistito. Forse l'aveva capito guardandomi negli occhi, mentre mi parlava delle nuvole e del cielo.
Dentro c'era un oggetto che gli era familiare, benché l'informatica l'avesse relegato al ruolo di reperto archeologico; un libro invecchiato dal tempo con una dedica, una veloce linea d'inchiostro.
Prendi: questo libro ti cambierà la vita.
L'aveva girato attonito ed aveva fatto scorrere le pagine, sentendole crepitare sotto le dita mentre si chiedeva
perché?
sapendo che c'era solo un modo per trovare la risposta: leggere.
... e così di ritorno da Hiroshima ci siamo chiesti: cosa possiamo fare per non dimenticare? In classe abbiamo discusso ed abbiamo avuto un'idea. Su un manuale di origami...
Quel libro veniva da uno dei paesi che avevano causato la Terza Guerra con la loro condotta irresponsabile ed il loro ostinato, egoistico nazionalismo. Era sovversivo.
Ma quello che trapelava da quel libro...
... Se la pace significa tacere e piegare la testa, non la voglio. La pace dovrebbe essere un'armonia di suoni diversi, non un silenzio assordante.
Qui e là c'erano delle annotazioni fatte a matita (del suo vicino? Di altre persone?). Tra tutte, una frase aveva catturato la sua attenzione ed aveva preso a risuonargli incessantemente nel cervello come un grido d'allarme.
E SE CI AVESSERO RACCONTATO SOLO BUGIE?
... si dice che moriremo tutti, che ci bombarderanno, che ci sono ancora in giro armi atomiche della Seconda Guerra Mondiale. Ho così paura...
... non avremo mai occasione di vederle volare nel cielo...
Quelle pagine avevano scosso Dan, dentro.
Aveva cominciato a chiederselo mentre camminava, mentre lavorava, mentre tornava a casa in metropolitana ed osservava i volti impassibili degli altri viaggiatori.
E se ci avessero raccontato solo bugie? Sulla guerra, sulle ragioni della guerra, su tutto?
Ma aveva presto capito che non c'era nessuno a cui chiedere, nessuno che avrebbe risposto. E forse, un mondo in cui nessuno sapeva dare quel tipo di risposte o si poneva quel tipo di domande... forse non era un mondo del tutto normale.
Se solo se ne potesse parlare...
Per quel motivo lavorava, notte dopo notte. Proprio una figura stampata su quelle pagine gli avevano dato l'idea.
... abbiamo deciso per le gru, perché sono un antico simbolo di buon augurio. Un augurio che i problemi si possano risolvere parlando, anche urlando, ma senza morire. Le legheremo a dei palloncini e le faremo salire nel cielo, affinché il mondo le veda e pensi prima di agire...
Disperderle nel vento non era la strategia giusta. La gente doveva sapere.
Dan osservò il cesto ai suoi piedi. Ce n'erano già abbastanza per il treno che prendeva ogni mattina, ma voleva farne di più, doveva farne di più, fino a che il libro non fosse finito, fino a che ogni pagina non fosse stata utilizzata.
Con un lieve sorriso sulle labbra si rimise diligentemente al lavoro.
Il segreto è nelle pieghe, lo so. Questa carta non è proprio adatta, ma farò del mio meglio.

Porta a porta

Racconti di Cristiano Micucci

Se un precario è considerato il piano terra della gerarchia lavorativa, io dovrei trovarmi pressappoco un paio di metri sotto il livello degli scantinati: dovrebbero esserci le fogne a quella profondità. Galleggio infatti in quella ribollente melma in forma di disoccupato con profilo dichiaratamente invendibile nel bazar dell’occupazione; sono una merce rimasta invenduta in magazzino. Magari qualcuno mi ha anche cercato, mi ha richiesto: “Ha mica uno di quei disoccupati sfigati, magari con laurea in filosofia? Capito di che modello parlo? Quelli che fanno tanta tenerezza… E’ per mia nipote…”.
“Signora, se mi dà un attimo controllo: fosse rimasto un fondo di magazzino... ma non credo, sa”.
E invece io ci sono in quel magazzino polveroso, ma sono nell’angolo più lontano, guarda caso dove s’è fulminata la lampadina. Nascosto da un laureato sfigato in scienze politiche, notoriamente più voluminoso.
Quando si posiziona idealmente il proprio ego a metà strada tra una fogna puzzolente ed un magazzino pieno di muffa, si prendono decisioni che possono apparire discutibili ai benpensanti, i quali comunque farebbero bene a pensare agli affari propri senza mettersi a commentare i comportamenti altrui, in particolare quelli del sottoscritto. A dirla tutta la decisione che ho preso appare discutibile persino a me – non per questo sono un benpensante, sia chiaro -, anzi, più che discutibile direi tragica: fare un corso per diventare venditore a domicilio di enciclopedie. Catastrofica, meglio ancora.
La trafila è dannatamene facile: dalla lettura dell’annuncio sul giornale al ritrovarmi davanti Paolo, questa specie di alieno antropomorfo in gessato e basette calcolate al micron che pare sarà il mio insegnante, passano meno di ventiquattr’ore. Se la giustizia funzionasse con tale velocità saremmo tutti in galera. La rapidità è essenziale: il precipitare degli eventi rimane a livello subliminale, non si ha il tempo di mettere a fuoco, di vedere che ti hanno messo una pala in mano e stai scavando per scoprire cosa c’è al di sotto delle fogne. E che hai pagato per scavare.
Il corso segue la stessa folle dinamica. Fulmineo, senza fiato. Poche lezioni di molte ore in pochi giorni. Deve averlo ideato Kubrik, prima di ‘Arancia meccanica’, per poi autoispirarsi in vista del film. A fine corso non dubito di aver perso metà del mio quoziente intellettivo: non so di quale enciclopedia dovrò vendere i volumi, che peraltro non ho mai visto, non so come farlo, o ancor peggio perché, chi dovrebbero essere i miei clienti, quanto costa quanto mi pagano quando mi pagano… mi pagano?!
Qualcosa però è rimasto. Dio mio: dell’intero corso mi resta incisa in profondità nei neuroni una ed una sola frase, anzi no, la frase. Il motto, lo slogan, la parola sacra della maligna divinità che generò un universo suddiviso in volumi tomi appendici e aggiornamenti. E decise di farlo vendere porta a porta. Mi suona talmente familiare da sentire mia madre che la pronuncia mentre ancora sono nella culla; sono le prima parole che ho pronunciato, quelle che per la prima volta ho scritto e quelle con cui ho imbrattato la parete del gabinetto del liceo, è il titolo della mia tesi. L’imperativo morale che oscura persino quello di Kant. Logos puro. “Prendi: questo libro ti cambierà la vita”. E’ il verbo che devo diffondere, spinto dalla fede.
Mi ritrovo apostolo di enciclopedie, con in più la mia firma su un contratto come venditore che neanche Satana avrebbe saputo redigere. Credo ci sia scritto che per tre vite dovrò fare questo mestiere: senza promozioni, poi si vedrà.
La domenica la passo in stato catatonico, probabilmente è l’effetto collaterale delle droghe che mi hanno iniettato durante il corso. Visioni di creature libriformi si alternano al viso di Paolo, l’insegnate profeta che mi ha trasmesso la parola.
Lunedì mattina esco di casa e senza mettere in moto il lato razionale del mio cervello mi faccio guidare da un istinto, un’ispirazione che viene dall’alto. Un faro mi guida.
Prendo un autobus a caso, scendo e di nuovo un altro autobus a caso. La città è grande, non so più dove sono, ma una luce metafisica mi guida. Scendo e cammino per una buona mezz’ora tra edifici che non riconosco. D’improvviso mi blocco: un numero civico. 42. Vado al portone e lo trovo aperto. E’ la Via. Entro e m’infilo nell’ascensore, poi all’ultimo piano scendo e mi faccio un paio di rampe di scale in discesa. Un corridoio lungo con molte porte. Cammino lentamente. Ne passo tre, quattro, poi mi blocco. Ci sono.
Non c’è cognome sul campanello. Suono. Un leggero tremore alla mano: l’emozione del portare la parola. Il Verbo sta per prorompere dal mio petto, la gola quasi esplode cercando di trattenere un grido che sarà cibo per le menti. Sento i passi dietro la porta, poi la porta che inizia ad aprirsi, un’ombra, una forma. Non riesco più a trattenermi e finalmente pronuncio la Parola: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita”.
“Non compriamo niente”.
E’ Paolo, l’insegnante del corso.
Che lavoro di merda.

Racconto di Antonella Dipaolo

Per un periodo della mia vita riuscii a prendere il treno quattro weekend consecutivi:roma-fabriano, fabriano-roma.
Mi continuavo a ripetere che lo facevo perché così andavo a trovare i miei genitori, rivedevo i miei amici, mi riposavo.
Ma la verità è che non sapevo perché lo facessi.
Era automatico, o almeno mi riusciva istintivo pensare che ogni weekend sarei scappata via dalla frenesia del quotidiano per ricercare la pace nel verde.
Ma non so se questo riuscì pienamente a soddisfare i miei perché fino a quando presi coraggio da un libro che mi prestarono una volta e cercai di dare un senso a questi viaggi.
Il librò lo trovai proprio all’inizio di questa ossessione per il treno.
Pioveva quel giorno e per non dare ascolto alla mia amica non presi l’ombrello.
A Roma quando piove non è pioggerella e a parte gli ambulanti che ti offrono pseudo-ombrelli (perché alla seconda goccia stai sicuro che si rompono) l’unico riparo pronto ad accogliermi alla fermata di Torre Argentina fu una tenda rossa di un negozietto al primo angolo della strada.
Accucciata sotto,con la paura che all’università sarei arrivata oltre che in ritardo anche bagnata, volsi le spalle alla vetrina di quella curiosa vetrina che mi stava ospitando clandestinamente.
Era una libreria.
Piccola, anzi piccolissima, ma la voglia di non beccarmi una grandinata sulla testa, mi spinse ad entrare.
“Buona giorno, anzi buona sera, mi scusi.”
“Prego.”
Non so dirlo se lo dissi più per educazione o come permesso per entrare , perché a parte un ombra scura, ricurva sopra un libro accanto a uno scaffale stracarico di libri, non sembrava proprio un negozio.
Mi accorsi subito della somiglianza con la mia stanza:se l’unica differenza fosse che al posto dei vestiti c’erano centinaia di libri, la loro disposizione era la stessa.
Per terra, sopra il tavolo e persino sopra delle sedie, uno sopra l’altro, in pile infinite,c’erano migliaia di libri. Addirittura per terra segnavano
un percorso obbligatorio, in cui non potevi improvvisare delle scappatelle.
Gothe, Tolstoy, S.Agostino, Verga, Manzoni, nomi che mi ricordavano qualcosa, ma niente come Federico Moccia, Alessandro Baricco.
Quindi la mia prima curiosità si spinse sul fatto se si trattasse realmente di una libreria o di una biblioteca.
Era da un pò che gironzolavo, con lo sguardo perso a cercare altri autori che mi potessero ricordare qualcosa, e con unica domanda che mi continuava a picchiarmi intesta:
“Ma da quando tempo non entra qualcuno qua dentro?”
Erano vecchi, forse sudici, mi accorsi di uno che pendeva dall’ultimo piano dello scaffale con la copertina completamente strappata:
“Ma chi avrebbe mai comprato questi libri?”.
Ad un tratto mi accorsi che fuori aveva smesso di piovere, forse anche da un pò, ma quel mondo di libri me ne aveva fatto proprio dimenticare.
Ripresi il piccolo sentiero all’indietro attenta a non calpestare “Cime tempestose “e posai la mano sulla maniglia della porta ringraziando, quando senti parlare quell’ombra che tutto il tempo era rimasta in silenzio assorta nel suo libro:
“Hai trovato quello che cercavi?”
“Mi dispiace, ma non cercavo nulla in particolare, grazie lo stesso.”
Non feci in tempo a voltarmi.
“Forse non hai cercato bene.”
Presa dall’imbarazzo cercai una scusa, la prima che mi venne in mente:
“Si in verità cercavo una lettura leggera, ma ho notato che qui di piccoli romanzi non ne avete, casomai lo dirò alla mia amica di questo negozietto: lei ama i bei romanzi di una volta
“Ma perché dici i bei romanzi di una volta?non pensi che tra questi libri ce ne sia uno anche per te? “
Non capivo se ero infastidita all’idea che non mi facesse più uscire da quella porta o il fatto che mi facesse tutte quelle domande sui dei vecchissimi libri che nessuno avrebbe mai più letto.
“Non penso ci sia un libro adatto a una singola persona, tanto meno uno adatto solo a me.”
“Prendi: questo librò ti cambierà la vita.”
Aveva la copertina di un rosso sbiadito, nel retro anche una macchia opaca, forse qualche millennio fa c’era caduto sopra qualcosa.
Lo aprì e con la mano sfogliai velocemente.
Notai che le pagine erano giallastre e anche molto spesse.
Forse non dovute al tempo, più che altro alla scelta della carta delle pagine, che aveva gli angoli sfilacciati come se non fossero stati tagliati a macchina, ma strappati.
“Non posso accettarlo, mi dispiace.
Non pensavo di fare shopping perché sto andando all’università, e non mi sono portata dietro i soldi”
“Ma non glielo sto vedendo, e neanche regalando:lo leggi e poi me lo riporti.
“Ma non ha neanche un titolo,di cosa parla?
“Questo me lo dirà lei quando me lo riporterà.”
Quella sera ritornata dall’università e da danza, non avevo voglia di andare al cinema con le mie amiche e rimasi a casa.
Accesi la tv, come al solito non trovai niente che catturò la mia attenzione e appena spinsi il pulsantino rosso mi ricordai del libro.
Lo lessi tutto quella sera.
La mattina seguente mi alzi e decisi che quel weekend sarei ritornata a casa.
Lo continuai a fare per tutto il mese senza trovare un motivo.
Andata e ritorno.
Solo dopo il quarto mese mi accorsi di un ragazzo che avevo già incontrato sul treno, ogni volta nell’ultimo mese.
Così, quella quarta volta, mi presentai, con un leggero rossore nelle guance, imbarazzata dal mio stesso gesto.
Domani ci sposeremo, dopo un anno e mezzo di fidanzamento e io non so se devo ringraziare quell’ombra scura che mi consigliò quel libro o quelle pagine stesse.
Che c’era scritto su quelle pagine?
Uno di quei bei romanzi di una volta.

Racconto di Angelica Gagliardi

Il silenzio era parte preponderante, già da lungo tempo, della mia esistenza. Non un compagno quieto, invisibile, ma un interlocutore prepotente che, con costanza, talvolta persino con audacia improvvisa, si faceva portavoce imperioso dei miei turbamenti. La mia identità frammentata, le strade che, a percorrerle, non portavano a nessun amletico bivio, i dubbi ormai obsoleti e le domande troppo grandi o troppo piccole o troppo pesanti. O troppo banali. Ferme, immote, galleggiavano inermi sulla superficie di uno stagno. Naturalmente, ero io. Quello stagno.
“Scusi…signorina…sa…per caso…quanto tempo manca ancora…da qui…per arrivare al monastero?” Era un uomo alto, magro, quel signore sudato, in pantaloncini e scarpe da trainer, che ansimando mi aveva riportato, di colpo, alla realtà, a quei contorni silvestri, a quel sentiero alberato, a quelle foglie ammassate che crepitavano leggere sotto i miei piedi, a quell’aria fattasi, d’un tratto, pungente sulle mie gote arrossate. Guardandolo sorpresa, risposi che non avevo idea di quanta strada mancasse ancora per arrivare. Mi sorrise. Un sorriso aperto, mobile, generoso. Inaspettato. Quasi un balsamo. Salutandomi, riprese a correre per la sua strada.
Chissà perché, non avevo più voglia di pensare. Ma di correre anche io, così, come quell’uomo, veloce e scattante verso non so dove, un qualcosa, una direzione, un desiderio. Verso un sorriso. Quell’uomo aveva rievocato in me la voglia di muovermi, la necessità intima di farlo, un bisogno naturale e primigenio. D’istinto, ripresi a camminare con vigore, cullata dallo scricchiolio ritmato delle foglie sparse ad ogni mio passo, odorando, a pieni polmoni, l’aroma fresco ed amaro del bosco che agonizza in autunno, distillando languido bruma e malinconia con consumata sapienza, come un monarca riluttante all’esilio. L’esilio dalla luce.
Questa stagione è così bistrattata, così sgradita agli animi metereopatici come il mio, perché sovente e a malincuore vi si ritrovano, con un’adesione immediata ed involontaria, a scrutarsi perplessi come in uno specchio feroce, e quella che ne emerge, quasi sempre, è un’immagine resa frammentaria dall’esser andato in frantumi del riflesso stesso, come in un celebre quadro di Magritte.
Sentivo il calore salirmi da dentro ad ogni mio movimento, era una piacevole sensazione quella di sentire, a poco a poco, riscaldare i miei muscoli, ed ogni poro della mia pelle dilatarsi ad assorbire avido l’aria attorno. Il sentiero allargava i suoi contorni avanti a me permettendo una visuale più ampia. Non molto lontano, in cima ad una collina s’intravedeva, fra la nebbia, la sagoma del monastero. Visto da qui, aveva un che di spettrale. Era in estate, l’ultima volta in cui lo avevo visitato. Ricordo la folla, i bambini vocianti correre avanti ed indietro richiamati dalle voci isteriche delle madri. Tutta un’altra atmosfera, quella estiva, non certo consona alla spiritualità e al raccoglimento che il luogo, per sua natura, evocava. Di buon passo, arrivai in cima. Il latrare furioso di un cane ruppe il silenzio, mentre due monaci si affaccendavano assorti, con pale e carriole di mattoni, fra le mura di uno stabile adiacente.
Attraversai la porta d’ingresso. Mentre stavo per attraversare un arco di quelli che delimitavano il chiostro, all’interno del monastero, una voce maschile mi chiamò. “Signorina!”. Mi voltai e notai, con evidente sorpresa, che la voce apparteneva allo stesso uomo che avevo incontrato poco prima nel bosco. Salutandomi, si offrì di farmi da guida alla biblioteca del monastero. Entrammo, facendo molta attenzione ad impalcature e secchi di calce, e fui subito avvolta da quell’odore intenso e fin troppo familiare della polvere depositata fra le pagine dei libri antichi. L’uomo mi si presentò dicendomi che era un monaco, di origine tedesca, esperto in restauro di testi antichi, lì per un lavoro di consulenza. Era gentile, dal suo modo di parlare traspariva entusiasmo e calore, attenzione, curiosità nel ricevere, ed attenzione nel trasmettere. Così rara, in un’epoca avara di slanci e premure verso l’altro da sé. Che sia esso un individuo od un libro. Ciò che più mi colpiva di lui, però, era la grande delicatezza che poneva nell’avvicinarsi ai libri, mentre me ne illustrava il contenuto e la fattura, il tipo di rilegatura e i rimaneggiamenti occorsi e succedutisi negli anni. Prendeva in mano un testo, quando tale gesto, naturalmente, non ne avrebbe compromesso l’integrità, con la lievità e la sapiente gestualità di una mamma che prende in mano un neonato. Terminato il giro all’interno della biblioteca, accompagnandomi fuori, nel chiostro, ci fermammo accanto al pozzo. Entrambi, lo sguardo rapito dall’avvicendarsi delle nuvole in cielo, restammo, per alcuni minuti, in silenzio. Nel congedarsi, mi guardò dritto negli occhi e mi raccontò brevemente la trama di “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar. Lo estrasse da una tasca e, porgendomelo, mi disse: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.”

Il bianco delle mutande stirate

Autore: Alessio Giovannini

Sandro aveva appena finito di stirare l’ultimo paio di mutande. Era una cosa apparentemente inutile. Ma che lui faceva da sempre con orgoglio. Diceva che gli piaceva molto la sensazione di quando se le infilava così belle stese, inamidate e profumate di fresco. Anche se poi sarebbe durato solo un attimo, era per lui un piacere praticamente irrinunciabile. Era stata sua madre - ormai barricata in un letto nella stanza di là - che l’aveva abituato a certe finezze tanto care anche a suo padre. Un uomo con la faccia da impiegato e la schiena da pescatore che nemmeno la domenica avrebbe mai messo una camicia col colletto lindo della festa. Ma le mutande stirate, quelle sì. E come! Al punto che Sandro la prima volta che lo vide in giacca e cravatta fu proprio quando ormai lui aveva già chiuso gli occhi su questo mondo, portando via con sé il vestito comodo della sua anima semplice. Era già lunedì, anche se ormai al figlio di quell’uomo tutti giorni sembravano una banale somma di ore. La pensione l’aveva rimesso a una vita piena di tempo da riempire. Sandro adesso era tutto per lui, ma se lo facevi bere un po’ partiva subito con degli strani discorsi sul bene, sul male e sul mondo che non c’è più. Era stato pure sposato una volta, solo che una settimana era bastata a quella donna per capire che forse dentro il cassetto della sua vita ci dovevano essere più sogni e meno mutande stirate. Lui non se l’era presa troppo. O almeno non lo aveva fatto vedere. Del resto, sul comodino della stanza degli ospiti, conservava ancora la loro bomboniera di nozze. Un cestino d’argento lucidato e su cui, nonostante gli anni, non voleva che cadesse mai nemmeno un fiocco di polvere. Su quello accanto al letto della sua camera, invece, teneva da sempre un libro con la copertina marrone come quella di certi vecchi messali su cui qualcuno gli aveva scritto sopra qualcosa a penna. Uscendo di casa, quel pomeriggio, inciampò sullo zerbino all’ingresso del condominio. Era ora di cambiarlo quel vecchio cencio tutto sfilacciato che quando pioveva si impregnava di fanghiglia e puntualmente sporcava le sue belle scarpe bianche da ginnastica. Quelle con cui, ogni giorno, andava in bicicletta sul lungomare corto corto della sua città, dove la corsa del mare diventava presto una saliva di sale sugli scogli. Uno di quei posti dove d’inverno si fanno rari incontri. Eppure…“Hai visto che bello?” Un ragazzino con le palle degli occhi a forma di ciliegia si era fermato come lui a guardare il mare freddo di fine ottobre e con lui aveva voluto condividere il suo attimo di meraviglia. Sandro non avrebbe voluto prestargli troppa attenzione, ma la sua educazione gli aveva imposto di rispondergli con un sorriso. Finché non ci si mise pure uno sbuffo di vento a spettinargli il riporto, trasformando i suoi capelli in una cresta scompigliata da spaventapasseri. “Avresti bisogno di un cappello!” Gli fece il ragazzino sghignazzando. A dire il vero, un po’ da ridere gli veniva pure a lui, ma il suo passato di vigile urbano lo aveva abituato a non scomporsi mai più di troppo. Forse per dare il buon esempio. Ma a cosa sarebbe servito in questo caso? Il ragazzino con gli occhi a forma di ciliegia, infatti, se ne era già andato più in giù dove la spiaggia non era fatta di sabbia e c’erano sassi piatti più facili da lanciare contro i piccoli muri d’acqua delle onde. Sandro, invece, era rimasto lì. Al suo posto. A guardare. Come faceva sempre da quando aveva l’età di quel bambino. Anche se mille volte avrebbe voluto mettersi a tirare pietre e ad urlare, quella divisa da vigile in fondo Sandro non se l’era mai tolta. Lui che il traffico non l’aveva mai diretto, se non per interrompere il corteo di qualche funerale o di qualche processione. Lui che, in tutta la sua carriera sprofondata in un paese di nemmeno mille anime, si era fatto bastare un unico blocchetto di multe con tanti fogli bianchi e stirati come le sue mutande. Lui che adesso se ne stava già tornando a casa, perché per sua madre era già ora di cena e le sarebbe dispiaciuto farla aspettare. Come tutte le sere Sandro era di nuovo tra le sue quattro mura, con il cucchiaio al posto del cucchiaio e il bicchiere dell’acqua accanto a quello del vino. Tutto questo per consumare un pasto misto e dello stesso sapore. Il tempo di sparecchiare e rimettere nel suo cassetto quella tovaglia bianca e perfettamente stirata ed era già di nuovo nella sua stanza. Pronto per un’altra notte senza sonno in attesa dell’alba. Al suo fianco quel libro con la copertina marrone. Con quella maledetta frase: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita” Era stata proprio la donna che aveva portato all’altare a lasciarglielo lì. Prima di andarsene per sempre. Sandro, come ogni sera da quel giorno, non faceva altro che aprirlo e stringere tra le mani quel mucchio di pagine bianche e stirate. Un vero muro di silenzio. Su cui in tanto tempo non era mai riuscito a scrivere. Nemmeno una parola.

Pronti? Tre, due, uno... via!

Con questo post inauguriamo ufficialmente il blog dedicato alla prima maratona di scrittura, che si è svolta il 25 ottobre 2008 a Matelica all'interno del cartellone di LibriAmo, la fiera dell'editoria regionale.

I partecipanti alla maratona erano 16. A ciascuno di essi è stato chiesto di comporre un racconto breve della lunghezza massima di 5000 battute spazi compresi, in un tempo limite di 2 ore, 22 minuti e 22 secondi.
La traccia, rimasta segreta fino a poco prima dell'inizio della maratona, era un omaggio voluto al tema della fiera che ci ha ospitato: i libri. La frase era questa: "Prendi: questo libro ti cambierà la vita". Secondo il regolamento, questa frase doveva comparire tale e quale all'interno del racconto.

Questo spazio è stato creato per ospitare tutti i racconti dei partecipanti, in modo che possano essere sempre raggiungibili, ma soprattutto per essere commentati dai partecipanti stessi, o da tutti i lettori.

Al termine delle 2 ore, 22 minuti e 22 secondi, la giuria si riunirà per scegliere e premiare i primi 3 racconti, ma qui nel blog, ci saranno tutti!