sabato 25 ottobre 2008

Legàmi marini

Racconto di Paolo Tramannoni

Un denso odore di catrame. Le auto mi sfrecciano rapide davanti, sollevando una malmostosa nebbiolina di fango umido. Sono appena uscito dal blocco roccioso del carcere. La mia visita è finita – per fortuna presto, come sempre. Speravo che ad attendermi ci fosse il tiepido sole di questo autunno clemente. Ma c’era invece il grigiore di una Pesaro dimessa, da fine settimana, con le sue auto che sfrecciano rapide e indifferenti fra i tigli di queste vie anonime. La visita si è conclusa senza saluti, senza melanconie, senza colpi di scena.
Lontano come sempre.
Padre.

Non attraverso le mura della città, perché non sopporterei il richiamo grazioso dei vicoli che si precipitano verso il centro. La cameriera del caffè ormai mi conosce, e mi cura con calore formale e protettivo. Chiuso in un silenzio intatto, lascio ancora un po’ nelle nari lo sfrigolio dell’odore di formaldeide della sala colloqui. Lascio che l’ombra dell’immagine rugosa e dura di mio padre ricompaia nella retina, un istante prima che si dilegui. Ma poi basta. Non ricordo nemmeno le due o tre parole che mi ha detto, distrattamente e per dovere. Anch’io, per oggi, ho già fatto il mio dovere di figlio. Posso finalmente accorgermi che la cameriera è carina. Non vistosa: semplice, non inavvicinabile. La raggiungo al bancone. Posso chiudere l’episodio con una stilla di dolcezza. Sei umana, mia estemporanea compagna. Di cose petrose, per oggi, ne ho avute abbastanza.

Compro il biglietto accanto alla stazione. Una giovane coppia, davanti a me, non finisce più di prenotare la vacanza, tra i consigli informati e premurosi di una signora di mezza età dagli occhi arrossati dall’allergia. Non pretendo di passare avanti. A me serve solo un passaggio per Ancona, ma non c’è fretta. Per una volta non mi irrita aspettare. Quest’attesa tra luci e parole mi risparmia una più lunga attesa tra i binari e l’odore d’olio di quella giornata bigia e appiccicosa. In fondo alla stanza, quello che può essere il figlio della signora continua a strillare al cane che, dispettoso e divertito, non vuol saperne di smetterla di latrare. Sono a casa.

Fuori, sulla panchina del binario tre, mi fa compagnia il battito dei miei piedi. Ritmico, musicale, a volte rabbioso.

A bordo, lo spazio aperto del vagone mi fa assistere in tutta la sua gloria all’ingresso trionfale di Dino, il poeta matto che vende in giro i suoi libri tirati a mano in qualche tipografia dimenticata. Con tigna, e una fiducia immensa nel proprio talento. Non ho mai voluto pendere un suo libro. Eppure, non mi è mai stato riservato, per qualche misteriosa questione di empatia, il brusco trattamento che ricevono a volte altri clienti (potenziali od effettivi). Non lo snobbate. Non trattatelo con sufficienza. Se vedete che i poderosi mustacchi neri di quel gigante pallido si mettono a vibrare, è un guaio. Ricordo di un ragazzo molto ben vestito, che non gli dava retta, preso per la collottola. Gli comprò tre raccolte, una per sé ed altre da regalare. O di un altro, dalla cui silloge appena acquistata Dino strappò serafico alcune pagine, che il tipo in questione “non avrebbe potuto capire”.
Passandomi accanto, stavolta si limita a scorciarmi con la coda dell’occhio e a passare oltre. Troppo nero, deve avermi visto, per aver voglia di perder tempo con me. Eppure ci ripensa, e mi accorgo di averlo davanti quando ormai mi sta fissando dall’alto.
“Ciao,” biascico.
“Tu hai bisogno di un po’ di poesia,” dice, i baffi piegati in un sorriso un po’ amico e un po’ cattivo.
“Forse,” dico. “O forse ho solo bisogno di una nuova vita.”
Mi porge la sua raccolta. “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.”
Guardo la bella copertina con l’inserto di carta-paglia stampata al torchio. Quando alzo gli occhi per dirgli qualcosa (“lo compro”? “non lo voglio”?) il colosso si è già dileguato. Alle mie spalle, la porta dello scompartimento si sta già chiudendo con il suo morbido sospiro metallico.

Mi guardo le ginocchia: il libro è aperto su una poesia molto breve:

Le vie del porto non sanno mai d’anice
tanto come quando
le ragazze hanno rifatto il bianco.
C’è azzurro alle finestre
e di sera s’infiamma al molo un’invetriata.

Sono qui. Ho percorso mille passi, ho aggirato le gru del porto, ho evitato il ciacolare dei piccoli bar che sanno d’anice, e sono arrivato al grigio condominio in batteria sotto la rupe del duomo. Una nave spezza l’umido rumore di fondo del porto con il suo possente richiamo da fine dei tempi. Un attimo prima che mi decida, dopo un lungo esitare sotto quei balconi anonimi senza fiori e senza grazia, a suonare il citofono.

“Sì,” mi risponde una voce di donna, consunta.
“Non ho appuntamento. Ho visto il suo annuncio nel giornale. Posso salire?”
Mi risponde il brusco scatto elettrico del vecchio portone di alluminio. Entro, salgo. Le scale sanno di formaldeide.

“Paola.”
Mia sorella mi guarda dall’uscio, senza ancora aprire. Sorpresa.
“Ho visto papà.”
Mi fa entrare. Dobbiamo dirci molte cose.

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