Racconto di Francesco Gentilucci
IL mio problema maggiore era di scegliere un giusto anticalcare. Pubblicità del cazzo. Passavo più di un ora impallato da quei programmi in tv e mi sentivo peggio che se mi fossi fatto uno spinello. Altro che calma piatta, quel cazzo di scatolone mi stava succhiando l’esistenza. E non c’era nemmeno niente di meglio da fare che starsene seduti ad aspettare che la polvere mi cadesse addosso come la neve fa d’inverno. Cadendo su tutto, depositandosi lentamente, felice, triste, allegro o vivo che potevo essere. Tutto quello che mi concedevo di fare era di guardare la televisione, non ero mai in vena di uscire, con la mandria di frenesia della gente che sentivo fuori. Di addormentarmi poi, non se ne parlava proprio, il mio corpo si rifiutava di starsene in posizione orizzontale più di 7 ore a notte. Mi svegliavo intorpidito dal sonno, cercando di scrollarmi di dosso l’ultima essenza di depravazione, che mi rattrappiva come una morsa. Ecco quello che succedeva ogni mattina: mi svegliavo, facendomi succhiare l’esistenza da qualche cazzo di specchio che mi guardava autoritario pronto a trovarmi mille difetti, e proprio quando mi sentivo pronto per uscire dovevo affrontare la prova di stare ore a farmi stordire la vita da qualche fottuto capo o gente che faceva continuamente domande e sapeva sempre meglio di me cosa dovevo fare. Arrivato all’ora di pranzo ingollavo senza gusto qualcosa alla svelta per tirarmi su, lasciandomi stuprare i polmoni da qualche sigaretta e lo stomaco da un caffè amaro sceso dalla macchinetta in plastica. Tornato dalla pausa ricominciavo come prima. Tornavo con la mia cazzo di macchina la sera, rigata puntualmente da qualche frocietto con le chiavi, mentre era parcheggiata, incazzandomi con qualsiasi cosa o persona che si trovava in traiettoria con le ruote della macchina. Arrivavo a casa e mi sentivo solo. Ma non era solitudine, era vuoto. Per placare la solitudine bastava chiamare qualche amico o la ragazza per farmi compagnia e finiva tutto. Invece con il vuoto non potevo farci niente. E non ero un poveraccio indifeso con un obbiettivo che non riusciva a realizzare. Ero uno che fino a qualche anno fa era una persona “normale”, con un lavoro e tutto il resto. Poi ci fu il libro. Trovandomi sbronzo un sabato sera fra dei barboni, rimanendo due gironi per strada, stringendo la vita più di qualsiasi altra amicizia avessi avuto nei miei 25 anni di vita. Poi il lunedì ricominciai tutto da capo. Cercando di sfogare tutta la rabbia battendo i diti sul computer, mentre i miei altri colleghi punzecchiavano la tastiera con mille suoni uguali che mi davano a dir poco sui nervi. Ti sei mai chiesto dove va tutta questa rabbia? Non svanisce mica sui tasti del computer. Io lo so dove va a finire, me lo ha spiegato un barbone per strada. Arricchisce la tua anima e poi puoi decidere tu se fartela succhiare o no dalle cose. “Prendi questo libro, ti cambierà la vita.” mi disse quel barbone. Tutti i passanti pensavano fosse uno psicopatico, ma io ero troppo gentile e ubriaco per rifiutare, quindi accettai di buon grado e barattai quell’oggetto con un quartino di vino brucia-budella che avevo con me. Mi ricordai di averlo dopo qualche giorno, quando avevo già ripreso il lavoro e stavo svuotando gli ultimi residui di sbronza.
Era vuoto.
Pensai subito che dovevo scriverci su qualcosa, o che cercando fra le pagine avrei trovato qualcosa di già scritto. Ma niente. Nemmeno una singola cazzo di parola. Dopo aver pensato che quell’uomo fosse veramente psicopatico capii qualcosa. Lo appoggiai aperto sul tavolo con accanto una penna, pronto per scriverci qualcosa di importante non appena ne avessi avuta l’occasione. Dopo due mesi non c’ era assolutamente niente. Iniziai a pensare a tutta la mia vita in quel momento, a quanto mi sentissi vuoto, al passato, al presente e quella stupida invenzione che è il futuro che ci rovina da sempre l’esistenza assillandoci su cosa potrebbe succedere. Forse un libro non mi ha cambiato l’esistenza, o forse si. Non so se ho voltato pagina o se forse avrei dovuto giudicare i libro guardando la copertina. Quello che più conta è che su una pagina scrissi qualcosa: PROBLEMI REAZIONE VITA. Senza sintassi.
Cosa me ne faccio ora del libro? Niente.
Se mai vi incontrerò baratterò il libro con qualcosa da mettere sotto i denti. Le pagine sono ancora completamente bianche.
Bianche perchè la pagina che ho scritto non c’è più, la porto in tasca stretta con me mentre cerco di addormentarmi, fra il freddo di questa notte e il rumore delle macchine rigate che sfrecciano incazzate per la strada.
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