Il silenzio era parte preponderante, già da lungo tempo, della mia esistenza. Non un compagno quieto, invisibile, ma un interlocutore prepotente che, con costanza, talvolta persino con audacia improvvisa, si faceva portavoce imperioso dei miei turbamenti. La mia identità frammentata, le strade che, a percorrerle, non portavano a nessun amletico bivio, i dubbi ormai obsoleti e le domande troppo grandi o troppo piccole o troppo pesanti. O troppo banali. Ferme, immote, galleggiavano inermi sulla superficie di uno stagno. Naturalmente, ero io. Quello stagno.
“Scusi…signorina…sa…per caso…quanto tempo manca ancora…da qui…per arrivare al monastero?” Era un uomo alto, magro, quel signore sudato, in pantaloncini e scarpe da trainer, che ansimando mi aveva riportato, di colpo, alla realtà, a quei contorni silvestri, a quel sentiero alberato, a quelle foglie ammassate che crepitavano leggere sotto i miei piedi, a quell’aria fattasi, d’un tratto, pungente sulle mie gote arrossate. Guardandolo sorpresa, risposi che non avevo idea di quanta strada mancasse ancora per arrivare. Mi sorrise. Un sorriso aperto, mobile, generoso. Inaspettato. Quasi un balsamo. Salutandomi, riprese a correre per la sua strada.
Chissà perché, non avevo più voglia di pensare. Ma di correre anche io, così, come quell’uomo, veloce e scattante verso non so dove, un qualcosa, una direzione, un desiderio. Verso un sorriso. Quell’uomo aveva rievocato in me la voglia di muovermi, la necessità intima di farlo, un bisogno naturale e primigenio. D’istinto, ripresi a camminare con vigore, cullata dallo scricchiolio ritmato delle foglie sparse ad ogni mio passo, odorando, a pieni polmoni, l’aroma fresco ed amaro del bosco che agonizza in autunno, distillando languido bruma e malinconia con consumata sapienza, come un monarca riluttante all’esilio. L’esilio dalla luce.
Questa stagione è così bistrattata, così sgradita agli animi metereopatici come il mio, perché sovente e a malincuore vi si ritrovano, con un’adesione immediata ed involontaria, a scrutarsi perplessi come in uno specchio feroce, e quella che ne emerge, quasi sempre, è un’immagine resa frammentaria dall’esser andato in frantumi del riflesso stesso, come in un celebre quadro di Magritte.
Sentivo il calore salirmi da dentro ad ogni mio movimento, era una piacevole sensazione quella di sentire, a poco a poco, riscaldare i miei muscoli, ed ogni poro della mia pelle dilatarsi ad assorbire avido l’aria attorno. Il sentiero allargava i suoi contorni avanti a me permettendo una visuale più ampia. Non molto lontano, in cima ad una collina s’intravedeva, fra la nebbia, la sagoma del monastero. Visto da qui, aveva un che di spettrale. Era in estate, l’ultima volta in cui lo avevo visitato. Ricordo la folla, i bambini vocianti correre avanti ed indietro richiamati dalle voci isteriche delle madri. Tutta un’altra atmosfera, quella estiva, non certo consona alla spiritualità e al raccoglimento che il luogo, per sua natura, evocava. Di buon passo, arrivai in cima. Il latrare furioso di un cane ruppe il silenzio, mentre due monaci si affaccendavano assorti, con pale e carriole di mattoni, fra le mura di uno stabile adiacente.
Attraversai la porta d’ingresso. Mentre stavo per attraversare un arco di quelli che delimitavano il chiostro, all’interno del monastero, una voce maschile mi chiamò. “Signorina!”. Mi voltai e notai, con evidente sorpresa, che la voce apparteneva allo stesso uomo che avevo incontrato poco prima nel bosco. Salutandomi, si offrì di farmi da guida alla biblioteca del monastero. Entrammo, facendo molta attenzione ad impalcature e secchi di calce, e fui subito avvolta da quell’odore intenso e fin troppo familiare della polvere depositata fra le pagine dei libri antichi. L’uomo mi si presentò dicendomi che era un monaco, di origine tedesca, esperto in restauro di testi antichi, lì per un lavoro di consulenza. Era gentile, dal suo modo di parlare traspariva entusiasmo e calore, attenzione, curiosità nel ricevere, ed attenzione nel trasmettere. Così rara, in un’epoca avara di slanci e premure verso l’altro da sé. Che sia esso un individuo od un libro. Ciò che più mi colpiva di lui, però, era la grande delicatezza che poneva nell’avvicinarsi ai libri, mentre me ne illustrava il contenuto e la fattura, il tipo di rilegatura e i rimaneggiamenti occorsi e succedutisi negli anni. Prendeva in mano un testo, quando tale gesto, naturalmente, non ne avrebbe compromesso l’integrità, con la lievità e la sapiente gestualità di una mamma che prende in mano un neonato. Terminato il giro all’interno della biblioteca, accompagnandomi fuori, nel chiostro, ci fermammo accanto al pozzo. Entrambi, lo sguardo rapito dall’avvicendarsi delle nuvole in cielo, restammo, per alcuni minuti, in silenzio. Nel congedarsi, mi guardò dritto negli occhi e mi raccontò brevemente la trama di “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar. Lo estrasse da una tasca e, porgendomelo, mi disse: “Prendi: questo libro ti cambierà la vita.”
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